Sul
nostro pianeta osserviamo lo stesso processo: da un pianeta infuocato trae
origine la vita e tutto ciò che ci circonda, ed è semplicemente l'ultimo
istante di un semplice punto di osservazione, cioè lo spazio-tempo della
piccolissima porzione di Universo che stiamo occupando. In altre zone
dell'Universo con dimensioni spazio-temporali diverse (magari più distanti di
noi dal punto di esplosione; magari con tempi di evoluzione più veloci; magari
entrambe) si può osservare come direzione e forma di questo fenomeno già si
invertono: la materia collassa su se stessa e ritorna energia pura,
probabilmente solo gravitazionale (buchi
neri).
Dell'attimo prima del Big bang possiamo solo postulare.
Nulla è concepibile per noi al di fuori di uno spazio-tempo. Solo dopo
l'esplosione si ha un'estensione spazio-temporale dell’uno materia-energia.
Estensione tipica di tutto ciò che da essa deriva, schemi mentali umani
compresi.
Forse l'entità materia-energia era in origine in equilibrio
con se stessa, senza spazio e senza tempo, quindi un equilibrio senza una
dimensione spazio-temporale, squilibrato il quale è avvenuta l'esplosione.
Oppure l'equilibrio non è raggiungibile ed esiste solo un continuo
riequilibrarsi, per cui lo spazio-tempo ha un limite oltrepassato il quale si
ricomincia dallo spazio-tempo, dando origine ad un continuum tra esplosione e
implosione dove esiste solo il riequilibrio.
Sono ipotesi metafisiche campo della filosofia che vuole dar
credito ad un creazionismo finalistico o ad un materialistico eterno ritorno
della realtà. Ma in questa sede sorvoliamo: qui si vuole avere consapevolezza
delle evidenze delle "dimensioni" fisiche, non delle congetture delle
non-dimensioni metafisiche.
Ripartiamo quindi dai dati di fatto. Dell’istante 0 non potremo
mai aver esperienza: in esso non ci sono né tempo né spazio. Infatti
fisicamente materia ed energia coincidono, ma solo in funzione di una costante:
il quadrato di una velocità, quella della luce nel vuoto. Una velocità
presuppone una dimensione, cioè l’estensione di uno spazio e di un tempo.
Analizziamo le analogie ricavabili dalla legge quantistica
di Einstein nella tabella sottostante.
La dimensione spazio-tempo non risulta contenitore della
materia o dell’energia: lo spazio-tempo è un attributo assunto dall’originario
“uno” materia-energia qualora si è “esteso”.
Quindi l’Universo possiede uno spazio-tempo assoluto (ed è
la sua stessa obiettiva estensione), mentre sono relative le misure dello spazio-tempo, in quanto compiute all’interno di
detta estensione, come ad esempio quelle dell’uomo sul o dal pianeta Terra.
Materia ed energia possono coincidere solo dove spazio e
tempo hanno identità nella loro estensione assoluta (vedi lo schema sopra). In
quel caso tutto è uguale a se stesso: non vi è più energia, materia, spazio-tempo,
ma “l’unità”(*) di essi senza estensione, uguale a se stessa.
Unità che possiamo solo intuire con la raffigurazione numerica dell’assoluto
(cioè con la matematica).
Ogni rappresentazione della realtà per un osservatore
inevitabilmente avviene attraverso una dimensione, ossia un punto particolare
all’interno dell’estensione materia-energia.
Ora ragioneremo su questi concetti fondamentali per
proseguire poi nelle considerazioni in medicina non convenzionale.
Dovremmo trovarci d’accordo sul fatto che un numero non
rappresenta propriamente una quantità, ma un’estensione assoluta di una qualsiasi quantità-qualità relativa della realtà.
Ecco un primo ragionamento. Consideriamo ad esempio “il
nucleo di un atomo”. È “un nucleo atomico” relativo a chi lo osserva
qualitativamente (cioè si raffigura la qualità di particella al centro
dell’atomo) e quantitativamente (cioè ne raffigura almeno uno). Chi osserva non
può avere rappresentazione reale di qualcosa senza quantità-qualità di quel
qualcosa: qualità-quantità sono indissociabili. Non ci possiamo rappresentare
una quantità senza qualità (anche dicendo “uno” ci raffiguriamo qualcosa per
rappresentarlo) o una qualità senza quantità (dicendo ad esempio “nucleo
atomico” se ne considera sempre almeno “uno”). Ogni “realtà” quindi è una
rappresentazione quali-quantitativa relativa ad un osservatore.
Prima che fosse osservato, il nucleo atomico esisteva in
senso assoluto per un dato di fatto: perché se non esisteva non poteva essere
osservato (in questo caso è pure parte costituente di chi osserva). Esisteva ma
non era reale per l’osservatore. E al di là di chi lo osserva, esiste nella forma
di equilibrio materia-energia tipica di quella precisa dimensione.
Per esser più chiari, un nucleo atomico è “un nucleo
atomico” per un osservatore. Mezzo nucleo è mezzo nucleo in base a quella
stessa definizione quali-quantitativa. Si può, ipoteticamente, proseguire oltre
fino a un milionesimo, un miliardesimo di atomo e restare in quella definizione
quali-quantitativa. Ma non fino all’infinito, e il motivo è banale: a forza di
spezzettare il nucleo, per quanto piccolo si arriva a un punto in cui
uscirebbero fuori altre entità con caratteristiche quali-quantitative proprie,
nuove dimensioni con nuove definizioni da parte di chi le osserva: protoni e
neutroni. La cosa sorprendente nasce dalla considerazione che proseguire fino
all’infinito con i numeri si può ma solo idealmente in chi osserva: questo
giochetto non vale invece nella realtà, perché la realtà si basa su identità
quali-quantitative finite relative a chi le osserva, ma esistenti
solo nell’estensione assoluta e finita spazio-temporale dell’originaria
entità materia-energia.
Così si definisce quali-quantitavamente “il fegato”, e si
può suddividerlo. Ma non all’infinito: si arriverà al punto in cui separeremo
gli ultimi due lobuli epatici (secondo Rappaport) o acini (secondo Elias) [5],
e perdendo la sua dimensione quali-quantitativa di fegato, inizierà quella del
lobulo o acino epatico. Così proseguendo, dal lobulo prenderà forma la realtà
dell’epatocita, e via dicendo per la cellula e gli organelli ultrastrutturali.
Al di là dei punti di osservazione della realtà, ciò che esiste è un continuum
di dimensioni materiali-energetiche intrinseche le une alle altre, pur perdendo
di significato per l’osservatore.
E’ importante perciò constatare che una realtà osservabile è
relativa all’osservatore, ma presuppone un’estensione assoluta, continua e
finita, esistente al di là di chi la osserva, ed è l’estensione dell’energia in
materia o viceversa, sempre e ad ogni dimensione dello spazio-tempo.
Le considerazioni fatte finora sui concetti fisici trovano
riscontro nei fenomeni naturali e nelle leggi che li descrivono.
In natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si
trasforma, e il pianeta Terra, staccatosi dal Sole come tutti gli altri pianeti
5 miliardi di anni fa, era una palla infuocata che ora ospita le più disparate
forme di vita. Perciò, ogni forma di vita qui oggi è una “semplice” trasformazione di quella sostanza
incandescente che ben poco aveva di materiale quando appena si staccò dal Sole,
come il Sole a sua volta aveva ben poco di materiale appena uscito dal Big
bang. Ma nulla si crea o si distrugge, e tutta la vita che osserviamo intorno a
noi è già tutta scritta dentro la “sostanza” primordiale: come un individuo
umano, per fare un parallelismo, è già presente nella prima cellula risultante
dalla fusione dei gameti. È solo questione di trasformazione, e di estensione.
Ciò che noi chiamiamo materia altro non è che energia
strutturata sotto forma di legami, che assumono caratteristiche precise a
seconda della dimensione spazio-temporale. Viceversa, l’energia altro non è che
materia destrutturata. Ciò che determina il passaggio da uno stato all’altro è
la velocità: E= m c2.
La legge di Einstein evidenzia proprio questo: l’energia e
la materia si identificano in virtù di un moto, cioè una velocità, che
presuppone in sé uno spazio e un tempo, cioè l’estensione di una dimensione. Energia
e materia sono la stessa sostanza più o meno stabilizzata in una dimensione
spazio-temporale.
La cosa difficile da afferrare è che questa strutturazione è
un fenomeno continuo, e non si distingue solo nella nostra dimensione qualora
noi percepiamo una “massa” o percepiamo un “calore”.
La materia risulta strutturata in questo modo. In origine,
come abbiamo visto, al primo istante dopo l’esplosione, l’Universo era
costituito di fotoni, quanti energetici che hanno comportamenti fisici sia
corpuscolari che ondulatori. Un attimo dopo presero forma le particelle
elementari, i leptoni, soggetti ad interazioni deboli (elettroni, positoni,
neutrini). Un attimo dopo ancora presero forma gli adroni, soggetti ad
interazioni forti (protoni, neutroni). Si arriva all’atomo, struttura comune
alla materia organica ed inorganica, composto da nucleoni (protoni e neutroni)
ed elettroni. Di attimo in attimo la temperatura scende drasticamente e
l’energia prende forma in “legami”, ossia materia.
La materia inerte compare quindi dapprima sotto forma di
particelle che interagiscono dando forma a materia sempre più organizzata e più
“fredda”. La materia è la stessa energia primordiale organizzata in “legami” e
più “fredda”, cioè meno mossa. Per strutturazione si intende quindi il fenomeno
per cui l’energia si stabilizza in materia abbassando la propria temperatura, o
rallentando il proprio moto intrinseco, che in fisica ha lo stesso significato.
Tale stabilizzazione a noi si esprime in determinati legami
materiali, specifici per ogni dimensione della materia stessa.
A noi gli estremi poco interessano, perché varieranno con la
sensibilità degli strumenti di indagine dei fenomeni fisici. A noi interessa
aver compreso come in natura materia ed energia coincidano in virtù di un moto,
perché ciò può far luce sui meccanismi delle così dette “medicine energetiche”,
altro triste sinonimo delle medicine non convenzionali.
Alla luce delle odierne conoscenze scientifiche in campo
geologico si possono datare le tappe attraverso le quali si è giunti alla vita
biologica nel pianeta Terra. Alla luce delle conoscenze astrofisiche invece,
come abbiamo visto sopra, quelle dell’origine del Sistema Solare (1) e persino
dell’Universo esplorabile [2].
Un aspetto che qui si vuole sottolineare è il tipo di moto
che caratterizza l’evoluzione dell’Universo intero, e il tipo di moto che
caratterizza i fenomeni in esso compresi, compresi quelli biologici.
Osserviamo i dati stimati [1][2], prendendo come unità di
misura temporale di riferimento il miliardo di anni, e l’anno solare.
Si è detto che energia e materia sono due stati di una stessa
sostanza con virtù diverse sulla base di un moto, cioè di uno spazio-tempo. Se
in natura uno spazio e un tempo assoluto esistono (quelli dell’Universo
esplorabile), misurandoli dal nostro punto di riferimento con la nostra
strumentazione, possiamo indicativamente osservare dal grafico sopra che la
stabilizzazione dell’energia in materia avviene con un moto non uniforme, ma
accelerato.
Gli “eventi significativi” in grafico sono arbitrari, ma
sono indicativi di quella strutturazione funzionale dell’energia in materia,
che ha consentito il progresso di un “sistema organizzato a uno scopo”, quello
della vita. Come dire: senza Sole non ci sarebbe pianeta Terra, senza pianeta
Terra non ci sarebbero mammiferi, senza mammiferi non ci sarebbe pensiero
umano, senza pensiero umano non ci sarebbero libri. Quindi i libri esistono in
virtù del Sole. Bizzarro, ma solo per il nostro immaginario, perché la realtà è così.
Se occorrono 10 miliardi di anni perché dal “niente” si
abbia un Sole, ci vogliono 4 miliardi di anni perché da una porzione
dell’inorganico Sole si formi sopra un organismo pluricellulare.
Ma ecco un altro Big bang, tremendamente più sorprendente
del primo: 0,5 miliardi di anni dopo, le prime alghe pluricellulari segnano
l’inizio di quello che i biologi chiamano, guarda caso, “Esplosione del
Cambriano” : la comparsa sul pianeta di quasi tutte le forme di vita, vegetali
e animali, oggi osservabili.
Constatare che l’evoluzione in questo senso sia in
accelerazione, è un’evidenza.
Se tra la prima forma di lingua scritta e la stesura del
metodo scientifico intercorrono 5000 anni, e e ne passano appena 300 tra questo
e l’osservazione del DNA, allora forse gli studi contemporanei sulla
comunicazione non verbale sono una prefazione alla telepatia, che non dovrebbe
poi essere così lontana.
Ho voluto riportare questi
dati e sottolineare questi aspetti anche per riflettere su un evento comparso
sul pianeta Terra circa 2 miliardi di anni fa, fondamentale per affrontare i prossimi capitoli. La
comparsa dell’ossigeno nell’atmosfera.
Il metabolismo dei primi organismi unicellulari infatti non
poteva che essere fotosintetico, se a disposizione non c’era quasi altro che
luce (fotoni). Di luce ve n’era tanta, ed immenso era l’habitat, per cui il
diffondersi repentino di tali organismi fu ovvio. Altrettanto ovvio però fu
l’accumulo repentino dei prodotti del catabolismo, tra cui l’ossigeno, tossico
per molti organismi unicellulari. Ecco allora che nel nuovo habitat gli
organismi fino a quel momento presenti instaurarono nuovi equilibri, nuove
forme di adattamento per raggiungere gli scopi di ciò che è vita: preservarsi e riprodursi.
Fermiamoci qui per un attimo, perché dobbiamo rivedere tutto
ciò alla luce dell’uguaglianza materia-energia.
Il motivo per cui sul pianeta Terra i dinosauri ci sono
stati per quasi cento milioni di anni crescendo in statura ma senza lasciare
uno scritto è lo stesso per cui in natura i nuclei atomici sono stabili a determinati
numeri finiti di protoni e neutroni: cioè l’equilibrio.
Abbiamo visto come la materia sia energia stabilizzata in
“legame” lungo l’estensione spazio-tempo. Ma ad ogni stabilizzazione si crea un
equilibrio tra ciò che nel frattempo si è stabilizzato e ciò che permane
dell’equilibrio precedente, essendo l’estensione un’estensione finita e
continua. Per essere chiari, se all’istante x troviamo fotoni, all’istante x+1
troveremo fotoni e particelle leggere (elettroni, positoni, neutrini);
all’istante (x+1)+1 troveremo fotoni, particelle leggere, protoni e neutroni
(particelle pesanti); all’istante [(x+1)+1]+1 troveremo fotoni, particelle
leggere, particelle pesanti e atomi; così via.
Ogni istante x+n perciò è un ambiente nuovo, con nuovi
legami, nuovi equilibri. L’uomo non è mai cresciuto in statura quanto un
dinosauro, perché quello non è il suo equilibrio materiale-energetico naturale,
e un rettile non ha mai potuto scrivere nulla, perché non era intrinseco al suo
equilibrio materiale-energetico. Potremmo trovare uomini giganti e rettili
pensanti in altre dimensioni “parallele” nell’espansione dell’Universo, perché
no? ma questa è fantascienza.
Bisogna però tener presente che la stabilizzazione
dell’energia in un “legame” materiale è già equilibrio: equilibrio che
l’energia ha assunto nell’estensione, mano a mano che il suo stato di “moto”
(la temperatura) diminuisce. La materia osservata è energia “equilibrata” in
determinate condizioni di spazio-tempo, dove ha raggiunto quel movimento
intrinseco (temperatura). Quindi la distensione dell’energia in materia è oggettiva.
I concetti di interno-esterno, ambiente-organismo, sono relativi a un
osservatore, ma accomunati da quella oggettiva estensione. Questo è
fondamentale per trattare di medicina, convenzionale e non, perché si dovrebbe
mirare a conoscere, preservare e ristabilire quando possibile l’equilibrio naturale di un organismo in vista di
quell’equilibrio oggettivo.
Un miliardo di anni fa, comparve l’ossigeno nell’atmosfera
terrestre. Non comparve gradualmente: la sua produzione fu, di nuovo,
“esplosiva”. Nel senso che d’un tratto venne prodotto a quantità industriali.
Si formò da quei batteri che adattarono le proprie strategie metaboliche al
carburante che allora era più disponibile in commercio: l’acqua.
In origine, tre miliardi di anni fa, la prima forma di
metabolismo comparsa nei batterioclorofilla, prevedeva l’uso esclusivamente
della luce per caricare fosforo nell’ADP. Un fotone per un legame atomico.
Quasi come dire… energia per energia. Il processo prende il nome di
fotofosforilazione ciclica, e la struttura pigmentata che la attua è chiamata
Fotosistema I [23].
Alcuni batteri poi cominciarono ad elaborare le proprie
strategie metaboliche, e ad utilizzare, come gli odierni tiobatteri, composti
altamente ridotti come substrato da ossidare. Ad esempio l’acido solfidrico (H2S).
Ma visto che l’acqua (H2O), altro riducente, cominciò allora ad
abbondare proprio come la luce, il passo obbligato da compiere per avere vita
facile (sussistere e riprodursi senza troppi problemi) fu attivare una strategia
per utilizzare entrambe: luce ed acqua. Evolsero allora i cianobatteri. Essi
“integrarono” al Fotosistema I un altro apparato: il Fotosistema II. Questi due
apparati attuano una fosforilazione non ciclica: fotosintesi che per
fosforilare l’ATP e “organicare” il carbonio (riduzione di anidride carbonica a
glucosio), deve ossidare l’acqua (H2O) in ossigeno (O2) [23].
Sottolineo che il Fotosistema II non sostituisce
ma integra il Fotosistema I.
Da Darwin in poi sappiamo che tutto questo processo
sottostà alle leggi dell’adattamento
evolutivo di un organismo in un ambiente.
Ma proviamo ora ad osservare cambiando punto di riferimento.
Proviamo a guardare questo processo da quel punto di osservazione che a Darwin
purtroppo era sconosciuto. Guardiamolo osservandolo dal Big bang.
Noteremo che organismo e ambiente scompaiono: tutto diventa
ambiente che si evolve dentro un ambiente. Ogni ambiente è dato dalle varie
forme di materia-energia che si stabilizza in una dimensione, e ogni ambiente è
caratterizzato da un equilibrio d’interazione di queste forme.
Da un ambiente dove c’è quasi solo acqua e luce, fioriscono
semplicemente acqua e luce materializzati in forme che denominiamo “di vita”.
Dai batteri a noi il passo è breve, è un attimo visto dal Big bang. Noi come i
batteri tuttora non siamo che ammassi di acqua in movimento che per muoversi
utilizzano fotoni. Ed è il fotone la differenza essenziale tra un ADP e un ATP,
non il fosforo “in più”. Ma torneremo su questo punto.
Ora contempliamo come questo microambiente (le prime
strutturazioni a base di acqua e luce), cioè le prime forme di vita,
equilibrandosi abbiano al tempo stesso squilibrato l’ambiente in cui presero
forma. Produssero ossigeno. Lo produssero in quantità industriali perché loro
si riprodussero a ritmi industriali. E si riprodussero a ritmi industriali
perché di acqua e luce, in quell’angolo di Universo, ve n’erano in quantità industriali.
Eppure l’ossigeno in quell’ambiente era tossico. Era ed è
tossico proprio agli abitanti (le molecole organiche) di quelle prime comunità
organizzate (le cellule) che lo produssero. Quindi il successivo passo
obbligato fu creare strutture più complesse, che producendo ossigeno fossero in
grado di isolarsi dall’ossigeno. Appena i prodotti del metabolismo
fotosintetico (ossigeno e carbonio organico) furono in esubero, il passo
obbligato per il nuovo equilibrio fu specializzare ulteriormente il
metabolismo. Comparve infatti, già nella compagine monocellulare, il
metabolismo animale, che integrò (non sostituì!) il metabolismo vegetale.
Questa dinamica prosegue nella nostra dimensione. Oggi
l’uomo produce idrocarburi e uranio radioattivo per il metabolismo che muove le
città. Sopravvivrà se saprà isolarli nel breve tempo. Sopravvivrà se si
adatterà a respirarli nel lungo tempo. Sopravvivrà se tale energia, per essere
ottimisti, gli permetterà di ideare sistemi “metabolici” più puliti e più
evoluti per le proprie comunità.
Concludendo, non è un organismo che si adatta all’ambiente o
un ambiente che si adatta all’organismo, ma entrambi in modo reciproco
costantemente e continuamente. L’adattamento di un ambiente su un ambiente
segue la dinamica (direzione, tempi, spazi, ecc) che è quella naturale dell’equilibrio materia-energia.
Ogni ambiente può essere fisicamente esplorabile in ogni sua
dimensione con leggi appropriate (newtoniane o quantistiche). Parlare di
ambienti che fisicamente si equilibrano in ambienti a seconda dei convenzionali
punti di riferimento, equivale a vedere un unico ambiente che si assesta da
energia a materia (o viceversa) quando il punto di riferimento diventa
l’inizio, il Big bang.
Dal quel punto di riferimento tutto è un processo di
equilibrio delle forme in cui la materia-energia si struttura. Da un equilibrio
scaturisce una nuova forma (estensione, espansione della precedente) che
squilibra e ristimola un equilibrio. Tutto ciò è la dialettica dell’omeostasi.
Divenire assoluto. E’ curioso, ma fisicamente inevitabile, notare che nello
spazio-tempo il processo evolutivo è in accelerazione contemporaneamente alla
decelerazione delle forme nel frattempo evolute: le galassie rallentano
espandendosi, ma l’evoluzione interna ad esse è in accelerazione.
1.4 L’extraterrestre al telescopio
A mano a mano che l’uno materia-energia si estende in uno
spazio-tempo, si stabilizza in una forma con una definita organizzazione.
Osserveremo nei prossimi capitoli che non è propriamente un’organizzazione più
evoluta a differenziare la “materia” organica dalla “materia” inorganica.
Ciò che è organico è contraddistinto invece, come è noto, da
motivazioni che l’inorganico non ha: le motivazioni biologiche, mantenersi e
riprodursi. Forse, come specificherò più avanti, è una presunzione ritenere tuttavia che l’inorganico non abbia
motivazioni solo perché non ne ha di “biologiche”. Probabilmente ha motivazioni
e scopi di esistere che non comprendiamo perché non possiamo che concepire le
motivazioni biologiche.
Per capire però quanto questa presunzione contamini tutta la nostra visione scientifica, e la
rende cieca davanti alla verità dei
fenomeni biologici, farò un banale e immaginario parallelismo.
Immaginiamo dunque che in un pianeta lontano, a noi
sconosciuto, un extraterrestre dalle sembianze umane abbia messo a punto un
telescopio a tre ingrandimenti per osservare nello spazio.
Al primo ingrandimento, puntando verso il nostro Sistema
Solare, con grande meraviglia, il nostro extraterrestre vede diversi pianeti, e
la Terra
nell’obiettivo risulta a lui grande in proporzione come un pallone da calcio
nelle nostre mani. Osserverà quindi un sistema di nuvole che nel frattempo si
muovono come fumo, e dedurrà che vi è un guscio trasparente a trattenerle,
altrimenti si disperderebbero nello spazio. Inoltre vedrà che ci sono aree
geometricamente indefinite di colori diversi, colori che corrisponderanno al
nostro blu, al nostro marrone, al nostro verde, al nostro bianco, e in qualche
punto, al nostro grigio scuro. Tutto appare immobile, tranne quel fumo
imprigionato in una sfera trasparente.
Allora il nostro curioso extraterrestre decide di passare al
prossimo ingrandimento. Vede che le aree marroni e verdi rimangono immobili, si
intravede una certa ma vaga vibrazione oscillante delle aree blu e azzurre, e
nota una prima differenza tra queste aree e quelle grigio scure: queste ultime
hanno geometrie più definite, hanno forme organizzate. Non solo. Appena un
punto della superficie di questo pianeta rimane oscurato dalla luce della sua
stella, questi punti neri geometrici si illuminano. Automaticamente: appena entrano
nella fase non illuminata dalla stella, si illuminano. Osservando bene inoltre,
egli nota che le aree grigie più grandi, sono collegate da sottili fili che si
illuminano anche loro nella fase oscura, e poi sembrano proprio scomparire
quando torna la fase illuminata. Il nostro extraterrestre ovviamente si
incuriosisce moltissimo, perché tra forme indefinite compaiono forme definite,
e per di più con un’attività di illuminazione organizzata.
Passa allora al terzo ingrandimento, puntando proprio in quelle
aree geometriche grigie. Con enorme stupore noterà un enorme brulichio di
puntini colorati che si muovono all’interno di esse, soprattutto nella fase
illuminata. Si muovono anche nella fase oscura, ma in minor numero, perché
molti di esse scompaiono all’interno di quelle figure geometriche per poi
ricomparire fuori durante la fase illuminata. Questi puntini si muovono lungo
quei fili illuminati che appaiono adesso come strisce, che ordinatamente si intrecciano all’interno
delle aree grigie, o corrono diritte e isolate tra area grigia e area grigia.
Sempre in queste aree, da alcune figure geometriche, si notano poi emissioni
più o meno concentrate di fumo nero, grigio, bianco.
Purtroppo non ci sono altri ingrandimenti, ma il nostro
curioso extraterrestre ce la mette tutta per sforzare la vista e osservare quei
puntini colorati nelle ore più nitide del giorno, ma poco si distingue.
Tuttavia, si intravedono una o più piccole ombre, che in genere si staccano dai
puntini colorati quando sono fermi e arrivano alle figure geometriche, e
viceversa, solo quando queste ombre si staccano dalle figure e arrivano ai
puntini, i puntini iniziano a muoversi.
Con la pura osservazione, cosa potrà concludere il nostro
extraterrestre dotato di logica umanoide ma privo di ogni esperienza sul
pianeta Terra?
- Vi è
un involucro trasparente che avvolge il pianeta e ne trattiene il sistema
nuvoloso.
- Tale
sistema nuvoloso è verosimilmente l’effetto del fumo sprigionato dalle
figure geometriche delle aree grigie.
- Siccome
nella fase oscura tale produzione di fumo si riduce, e concomitantemente
si riduce il via vai di puntini colorati da un area all’altra,
verosimilmente sono quei puntini a produrre il fumo, e quindi le nuvole.
- Lo
producono probabilmente attraverso dei messaggi che trasmettono e sono
vagamente visibili come ombre piccolissime, e che vanno in direzione
biunivoca dai puntini colorati alle figure geometriche.
- Questi
messaggi a ombra partono dai puntini colorati esclusivamente quando essi
sono fermi. Quando invece vanno dalle figure geometriche ai puntini colorati,
questi ultimi iniziano a muoversi.
Queste e altre osservazioni rappresenteranno la realtà
terrestre per il nostro extraterrestre. Saranno vere non appena potrà
sperimentare cosa accade interrompendo quelle strisce comunicanti (le strade), bloccando
selettivamente puntini di un certo colore (gli automezzi), eliminando le figure
geometriche (le fabbriche) delle aree grigie (le città) che producono le
“nuvole”; impedendo magari l’uscita dei messaggi a “ombra” (noi!).
Certo è che potendo indagare con strumenti di osservazione
che rimangono inevitabilmente della sua dimensione, per quanto potenti, non
potrà mai capire le vere dinamiche di quelle città.
Prima o dopo potrà dedurre forse che le città esistono nella
loro costituzione e nella loro azione solo in virtù di quelle ombre, ma
non capirà mai l’intelligenza emotiva
[24] che costituisce e muove quelle ombre. Soprattutto, se mai
capirà che senza tali ombre non ci sarebbe alcuna area grigia, ma solo aree
verdi, marroni e blu, sicuramente non capirà mai che senza le aree verdi
marroni e blu, monotone e insignificanti per la sua osservazione al telescopio,
di quell’intelligenza emotiva non vi sarebbe davvero neppure l’ “ombra” sulla
Terra.
Ebbene, di questo calibro è la verità scientifica della realtà
biologica che l’uomo sta osservando da 300 anni al microscopio.
2. L’ “altra” medicina
2.1 Questione di metodo
Analizziamo brevemente la differenza sostanziale dal punto
di vista epistemologico tra medicina non
convenzionale e medicina convenzionale, quella cioè ufficialmente
riconosciuta come scientifica.
Facciamo alcune considerazioni senza entrare nei particolari
di ciò che è sperimentalmente scientifico basandosi sul criterio deduttivo di
falsificabilità,
o su quello induttivo di
verificabilità [19].
Un fenomeno è sperimentabile scientificamente se si possono
mettere in relazione misurazioni riferibili a detto fenomeno. Qualora uno
studio di tali misure fa emergere una tesi, che consente la previsione del comportamento di tale
fenomeno e la sua ripetitività,
allora tale fenomeno si può ritenere scientificamente spiegabile. Ciò che non è
scientificamente spiegabile però, non risulta “non reale”.
Fig 2.1 [19]
Algoritmo di dimostrabilità scientifica
Risulta un fenomeno umanamente non “prevedibile” e
“riproducibile”, non un fenomeno che non esiste. C’è ad esempio la tendenza a
dire che le guarigioni miracolose non esistono. Le guarigioni miracolose invece
sono un dato di fatto, e su queste la medicina scientifica mette il timbro
“guarigione inspiegabile”.
Il cervello animale prima osserva e poi conosce, ma il
conoscibile non può che essere un sottoinsieme che prende forma da ciò che si
osserva. Prima di ogni atto conoscitivo il mistero di ciò che si osserva è
totale. Come nei bimbi neonati.
Il metodo scientifico che oggi applichiamo non è nato trecento anni fa: è stato descritto trecento anni fa. Nasce in
ognuno di noi, infante, dal momento che ci accorgiamo consapevolmente (*)
che piangendo otteniamo nutrimento da una strana figura che si muove. Forse è
il nostro primo atto sperimentato scientificamente, di cui facciamo previsione
e ne confermiamo la ripetitività.
Con l’atto conoscitivo diamo progressivamente spiegazione al
mistero. Conoscendo però ci sfugge che la realtà è tutto ciò che osserviamo, e
l’inspiegabile non esiste se non dentro di noi. Il metodo scientifico
sperimentale è applicato da tutto il mondo biologico, non solo dall’animale
evoluto. Gli uccelli applicano il metodo scientifico per costruirsi il nido, le
cellule lo applicano per produrre una proteina o correggere il DNA. Ma per fare
ciò uccelli e cellule, ciascuno a modo suo, ciascuno con misurazioni consone
alle proprie dimensioni, ciascuno con il proprio livello di consapevolezza, devono
pur sempre “misurare”, confermare ipotesi e ottenere i risultati desiderati. Il
dato di fatto banale di cui dobbiamo tener conto alla luce del ragionamento
fatto fin qui è che le misurazioni che fanno le cellule sono incomprensibili
agli uccelli, e quelle delle cellule e degli uccelli sono incomprensibili
all’uomo, perché ciascuno le esegue nella propria dimensione inevitabilmente
applicando quello stesso metodo.
Dobbiamo convenire quindi sul fatto che un fenomeno
osservato ha delle leggi per cui avviene in natura, al di là dell’uomo che lo
misura e lo controlla.
A questo punto facciamo chiarezza sull’azione cruciale per
la scienza: la
misurazione. Per dimostrare scientificamente occorre
ovviamente “misurare”. Ma se fino a pochi decenni fa si poteva misurare
obiettivamente solo con il numero, oggi, dopo l’opera epocale di Whitehead e
Russel, i Principia Mathematica [21],
è misura obiettiva anche la
logica. Anzi, la matematica pura è estensione della logica
[21].
Grazie a quest’opera, la logica, da filosofia discutibile,
diviene scienza. E’ possibile uno studio scientifico della realtà anche là dove
le misurazioni non possono esser fatte con il numero. A quest’opera si rimanda
per i particolari.
Qui è determinante, sempre per analizzare scientificamente
le medicine alternative, tener conto che si può comprendere la legge di un fenomeno
osservato certamente misurando, ma non per forza di cose misurando numeri. Si
mettono cioè in rapporto logico obiettivo delle affermazioni reali corrispondenti a dati di fatto reali, correlati dalla reale e
verificabile corrispondenza di causa-effetto.
In medicina non convenzionale, tali dati di fatto reali, che
assumono la stessa obiettività del “numero” nell’esperimento meccanico, non
possono che essere segni e sintomi. I dati di fatto su cui si basa
anche la medicina ufficiale dovrebbero essere dapprima segni e sintomi vissuti
dal paziente, mentre invece spesso sono secondari ai segni e sintomi “numerici”
delle analisi collaterali.
Quando si parla di “Medicina” si deve aver chiara una cosa
umanamente ineccepibile: la patologia e
la salute dell’ ”organo” devono essere inevitabilmente e scrupolosamente studiate
non in modo fine a se stesso ma per raggiungere l’obiettivo più alto, cioè lo
studio del malessere e del benessere dell’ “organismo” a cui appartengono quegli organi.
Già per raggiungere il primo obiettivo le misurazioni
numeriche incontrano ad un certo punto le difficoltà tipiche che si incontrano
quando il misuratore arriva al limite della propria dimensione. È inevitabile invece che per misurare obiettivamente
benessere e malessere di un organismo si dovranno adottare criteri che dai
numeri possono al limite essere confermati.
Riassumendo, “alternativa” o “non convenzionale” sono
termini comunemente attribuiti dalla medicina classica a medicine non
sperimentate con il metodo scientifico ufficiale. Per rendere scientifico un
metodo però vi sono diversi criteri. Tali criteri nella storia della scienza
hanno subito variazioni, passando da quelli di verificabilità (induttivo) a
quelli di falsificabilità (deduttivo).
A seconda del criterio, esso non è che una sperimentazione
comprovante (induttiva) o controprovante (deduttiva) per determinare se un
fenomeno osservabile (**) è reale, prevedibile e ripetibile. Ma
attenzione: è controprova o comprova, non prova, che un fenomeno osservabile
sia reale e riproducibile.
La prova che un fenomeno sia reale ovviamente è
l’osservazione medesima, che inevitabilmente parte da una base empirica. Anche
un'osservazione immaginaria infatti ha sempre base empirica: si può discutere
se "un uomo che vola" è reale o immaginario, comunque tale immagine
si basa sull'osservazione dell' "uomo" e del "volo",
empiriche. Si vuole allora escogitare un “metodo” per comprovare o controprovare che
quell'immaginazione corrisponda o no a qualcosa di reale e riproducibile. Tale
metodo lo si chiama appunto scientifico.
Tuttavia , il metodo scientifico solo secondariamente è un
protocollo ufficiale di verifica. All'origine, è il metodo che la ragione
animale attua ogni giorno per conoscere la realtà.
Ci risulta “reale” ciò che, percepito empiricamente con i
sensi, in ogni banale esperienza quotidiana comproviamo o controproviamo usando
la ragione.
Un fenomeno osservabile in natura è riproducibile quindi al
di là del metodo che lo analizza e lo spiega: basta innescare le cause che lo
effettuano.
Ebbene, le medicine non convenzionali, pur non essendo
ancora scientificamente provate, sono terapie che attuano una cura (come causa)
i cui effetti sono empiricamente attesi.
*consapevolmente
perché vi è una fase precedente in cui è inconsapevole,
innata. Alla base vi è una capacità intellettiva associativa che da inconscia diviene conscia. Tuttavia è
l’inconscio che si forma su una coscienza, non il contrario. Semplicemente nel
momento in cui prende forma un livello di coscienza superiore, quello inferiore
diviene inconscio. Questa fenomenologia è ben presa in considerazione nei Principia Cybernetica, cui si rimanda [20]. Vedi anche paragrafo 2.3 Psiche e corpo.
**Si considera l’ “osservabile” e non l’“osservato”
per questo motivo: l’osservabile, reale o immaginario, comprende sempre
l'osservato, esclusivamente empirico.
2.2 Il “come” dei
meccanismi, il “perché” delle motivazioni
Abbiamo accennato all’opera di Russel e Whitehead, i
“Principia Mathematica”. Quest’opera ha determinato la nascita di una nuova
dottrina scientifica, quella dei “Principia Cybernetica”.
Il
Principia
Cybernetica Project (PCP) è un tentativo di unificazione interdisciplinare
tra la
teoria dei sistemi (la
cibernetica)
e le teorie dell’evoluzione [3]. Tutto quello che è stato trattato fin qui si
ispira a quel tipo di progetto.
Fino a cento anni fa la maggior parte della realtà osservata
poteva essere spiegata con il modello d’indagine cartesiano. Quel modello ha
contribuito al tempo stesso alla costruzione di strumenti d’indagine che a loro
volta hanno permesso l’osservazione più approfondita di realtà che esso stesso
non spiegava. Da tali osservazioni sono emerse le teorie quantistiche, i cui
modelli scientifici spiegano realtà prima inspiegabili.
Tutto questo processo dimostra ancora una volta come
l’evoluzione sia un fenomeno continuo che non avviene per salti, ma ogni
traguardo è un punto di partenza, e non vi è punto di partenza che non sia
stato traguardo.
Il modello cartesiano, si sa, non deve essere soppiantato da
quello quantistico: entrambi servono per descrivere leggi specifiche per
specifiche dimensioni della realtà loro oggetto. Perciò anche il metodo
scientifico non è “da superare”, ma sempre da “integrare”.
La medicina ufficiale oggi è al passo con il modello
scientifico quantistico solo nella diagnostica collaterale: TAC, RM, Rx,
ecografia, analisi di laboratorio, etc. L’approccio clinico alla malattia
invece è fermo alla dinamica meccanicista del modello cartesiano.
Il sistema si è così viziato. Il medico è più fiero della
precisione tecnologica nel descrivere una malattia, che non dell’aver in mano
una terapia per risolverla. Più si è afferrati e in possesso di metodiche
diagnostiche all’avanguardia, più ci si sente bravi medici. Mentre la terapia,
a fianco di mille fotografie e mille numeri, è sempre quella: se non funziona
ci si giustifica con la deviazione standard sperimentale. La diagnostica
collaterale, nella ricerca, è un enorme, indiscutibile traguardo. Ma essa non può
andare oltre l’organo.
Ma agli studiosi di medicina integrata, interessa
l’organismo. Allora questo traguardo deve diventare un punto di partenza, e
cercare di andare oltre.
In altre parole, sappiamo molto sui meccanismi
fiosiopatologici degli organi; possiamo analizzare immagini bellissime e
chiarissime del prima e del dopo un evento patogenetico; abbiamo sviluppato terapie
molecolari che possono modificare in modo mirato questi meccanismi. Ma forse
traditi dall’entusiasmo, forse affascinati dalla sensazione di onnipotenza,
forse tentati dai ritorni economici di questo evento, forse per tutte queste
conseguenze di questo traguardo, abbiamo perso di mira i princìpi supremi.
Abbiamo dimenticato che il punto di riferimento della ricerca medica è il
benessere psico-fisico
dell’organismo: forse perché l’ambizione più radicata nel mondo sia accademico
che professionale, al di là di ogni deontologia, è aprire un libro di medicina
per fantasticarci sopra riverenze professionali e denaro, invece di
contemplarvi il miracolo e il dramma della vita. Ma proseguiamo.
Abbiamo detto che lo studio della fisiologia e della patologia
dell’organo (dalla cellula agli
insiemi di cellule, cioè i tessuti e gli organi propriamente detti) deve essere funzionale allo studio del
benessere e del malessere dell’organismo.
Abbiamo visto come le leggi della fisica cartesiana siano ideali per
comprendere i meccanismi d’azione fisiopatologici “misurabili” dell’organo.
I fenomeni biologici però possono essere previsti e
riprodotti non solo in base a una meccanica, ma anche in base ad una motivazione.
Ad esempio. Se facendo una banale richiesta a qualcuno, del
tipo: “mettiti seduto”, si osserva che costui si siede, possiamo fare due
misurazioni. La prima è di tipo meccanicistico: descriviamo cioè tutto il
percorso fisico dell’informazione (elaborazione nel cervello di chi formula
l’informazione, emissione dal suo organo di fonazione come onda sonora,
percezione nell’organo di ricezione di chi la riceve, traduzione in
informazione nel cervello di questi e sua esecuzione). Tutta la meccanica di
questo percorso può essere ipoteticamente descritta con leggi newtoniane.
Eppure tutta questa descrizione non ci svela se la persona a cui è dato l’ordine
deciderà o no di sedersi. La seconda misurazione è di tipo motivazionale. Ci sono tante variabili quante sono le motivazioni a fare l’una o l’altra cosa
che determineranno proprio l’uno o l’altro effetto. Ebbene, noi possiamo
prevedere e anticipare l’effetto solo ed esclusivamente conoscendo queste
variabili.
Conoscendo la meccanica a pennello, ma non le motivazioni,
non possiamo prevedere nulla. A meno che l’ipotetico interlocutore non sia un
robot, cioè una macchina programmata. Ecco perché il modello cartesiano è
impeccabile nell’ingegneria, ma non in biologia. Ecco perché in biologia le
misurazioni di un meccanismo seguono statisticamente una distribuzione
gaussiana.
Se al contrario, non conoscessimo nulla della meccanica, ma
conoscessimo tutte le motivazioni?
Rischieremmo in questo caso di illuderci di poter fare a
meno della meccanica, fondamentale da conoscere anche per non cadere nel
soprannaturale. Mi spiego rimanendo nell’esempio.
Se un indigeno, che nulla sa di anatomia e fisiologia,
chiede di sedersi ad un suo coetaneo affetto da morbo di Halzeimer, penserà che
il suo coetaneo sia in preda a forze oscure vedendolo non rispondere con
normali e prevedibili reazioni a tale domanda, pur avendo presenti tutte le
motivazioni che lo possono portare a sedersi o meno. Semplicemente si è
inceppata in lui la meccanica di elaborazione dell’informazione. Non c’è alcuna
forza oscura.
Perciò, comprendere il meccanismo d’azione è fondamentale in
biologia. La scienza ci ha permesso di farlo egregiamente fino ad oggi. Ma poi
bisogna sondare il campo delle motivazioni. La biologia è biologia in quanto
motivazione: motivazione a sussistere, preservarsi, riprodursi.
Personalmente, sono convinto, coerentemente alla logica fin
qui adottata, che una motivazione vi sia in tutta la “materia”
(l’energia-materia per coerenza). Solo nella sua strutturazione avanzata, che a
noi risulta biologica, possiamo
intravederne motivazioni, e possiamo
comprendere solo le motivazioni delle
sue forme più evolute semplicemente perché sono quelle più empatiche con le nostre. Superbamente questo nostro limite
conoscitivo, lo ribaltiamo: non è l’uomo che ha un limite nel comprendere la
vita, ma la realtà che non ha vita oltre a quella che lui comprende. Questa
superbia è la strategia che adottiamo per auto-ingannarci su un limite,
facendolo diventare una prerogativa. Ma da qui alla teologia il passo è breve.
Noi dobbiamo parlare di medicina.
Per concludere, le singole parti di un sistema vanno
analizzate per comprendere il loro ruolo in tale sistema: i loro meccanismi
devono essere ricercati perché sono la guida alla comprensione del motivo per
cui il loro meccanismo sussiste.
Ebbene, la scienza che si occupa, con il metodo cartesiano e
quantistico a seconda della dimensione, delle comunicazioni tra le parti di un
sistema, è quel ramo dell’informatica che si chiama cibernetica.
La medicina integrata ha come obiettivo lo studio delle
informazioni bi-direzionali tra sistemi di cellule, tessuti ed organi
all’interno dell’organismo animale.
2.3 Psiche e corpo
Per la medicina convenzionale, un organismo sta bene quando
i suoi organi funzionano nella norma. La normalità corrisponde a un valore
medio (in senso statistico) della funzionalità organica. Perciò la medicina
convenzionale attua prevenzione e contrasto alle deviazioni critiche
(patologiche) di tale media funzionale. Gli animali con patologie d’organo però
spesso non dimostrano di stare male. Per quanto sia raro, si incontrano addirittura
persone ammalate che, accettando la propria patologia, affermano di “star
bene”. Queste considerazioni arrivano a sfociare in problematiche esistenziali
cruciali, quali il dolore e l’eutanasia, su cui non possiamo dilungarci. Ma è
fondamentale anche qui ricordarsi che questi sono gli obiettivi ultimi in
Medicina, e le nostre analisi sono vane, a monte, se non teniamo presente il
tema di fondo, a valle.
Negli animali l’organismo è costituito da corpo e psiche.
Verrebbe da pensare in modo ovvio che “c’è benessere quando corpo e psiche sono
sane. Se uno o l’altra o entrambi sono ammalate, c’è malessere”. Invece, per
ragioni addirittura più ovvie, non è affatto così.
Corpo e psiche non sono due cose, ma una sola cosa. La psiche
è semplicemente la funzione espletata dall’organo più evoluto dell’organismo
animale, cioè il sistema nervoso della vita di relazione: l’encefalo, o meglio
la sua corteccia cerebrale. Tale funzione è più evoluta nell’uomo perché l’uomo
ha la corteccia più evoluta in natura. Tutto qui.
Psiche e corpo possono anche essere analizzati come mondi
separati. L’importante è farlo consapevoli di non analizzare la realtà. Questo
in verità è un ostacolo non indifferente, perché crea disastri concettuali.
Vediamone alcuni attraverso alcuni quesiti.
Un animale “sta male”
o “sta bene” quando avverte
malessere, cioè ne è cosciente, e lo fa tramite la sua psiche.
Può stare male avendo ogni organo sano? Evidentemente sì:
qualora gli viene impedita una delle famose “cinque libertà etologiche” che
garantiscono il suo benessere animale [22]. Può viceversa stare bene avendo un
organo ammalato? Evidentemente sì: lo dimostrano i casi di patologie d’organo
gravi non avvertite da pazienti umani, riscontrate fortuitamente in coincidenza
di controlli di routine (e vale la pena sottolineare che non è solo questione
di tempo: talvolta queste patologie sono inavvertite per tutta l’esistenza,
scoperte all’esame necroscopico dopo morte naturale del paziente).
Benessere e malessere di un organismo non sono quindi
riferibili alla somma di salute o patologia degli organi dell’organismo.
Benessere e malessere sono riferibili alla percezione che l’organismo ha della
propria totalità.
La corteccia cerebrale è l’organo che svolge tale funzione:
coscienza di star male o bene relativamente agli scopi esistenziali
(mantenimento e riproduzione) e alle soglie di allarme (di dolore o di
gratificazione) specie-specifici. Ma la corteccia ha coscienza del benessere
totale senza avere coscienza delle singole parti dell’organismo.
Infatti, i dati per trarre le conclusioni che le spettano
sono presi dalla struttura nervosa con cui è in continuità perché da essa
deriva: il sistema nervoso autonomo. Il sistema nervoso vegetativo ha una
propria coscienza che noi non avvertiamo, ma che comunica inevitabilmente con
la coscienza che avvertiamo e che da essa deriva (basta pensare ai circuiti
della fame, della sete e del sonno). Ogni organo è innervato da fibre del
sistema nervoso autonomo.
Quindi la “coscienza” esiste per l’organismo animale che la
vive cerebralmente. Ma esiste perché è una funzione in continuità con la
funzione del midollo spinale, che ha di fatto e inevitabilmente un proprio
livello di coscienza. Riconosceremo allora che una coscienza di natura nervosa
inizia per forza di cose a livello dei gangli nervosi autonomi topograficamente
distribuiti per organi e tessuti. Ma perché abbiamo la presunzione di pensare
che una coscienza possa essere solo di origine nervosa, quando invece questo
tipo di coscienza è l’ultima emanazione evolutiva di molteplici realtà che la
vanno a costituire? Spieghiamoci meglio.
E’ verosimile che ogni fibra nervosa autonoma, per
raccogliere l’informazione di più cellule di un organo, innervi una singola
cellula parenchimatosa: quella che a sua volta raccoglie l’informazione media delle altre attraverso canali
d’informazione non neuronali. Ma allora ciò presuppone inevitabilmente che
quella cellula innervata abbia “coscienza” di rappresentare un gruppo di
cellule (questo ricalca il meccanismo di strutturazione dei sistemi ben
descritto nei Principia Cybernetica,
a cui si rimanda [20]). Se invece fosse che ogni cellula è innervata da una
singola propaggine di una fibra nervosa autonoma, ben venga a ritenere che non
ci sia “coscienza d’organo”. Saremo comunque costretti a riconoscere forme di “coscienza”
a livelli più bassi, cioè per la cellula: l’unità vitale più piccola che già
mira a conservarsi, mantenersi e riprodursi. Inoltre gli organismi pluricellulari compaiono quando
più cellule si accorgono che organizzandosi tali scopi si raggiungono prima e
più efficientemente. Anzi, è proprio quando tali comunità di cellule
raggiungono dimensioni critiche che alcune cellule si specializzano ad
orchestrare le informazioni, e diventano di natura nervosa.
Ma il ragionamento fatto per l’organismo e per la cellula
può esser fatto per le strutture costituenti più piccole, per organelli
cellulari e molecole organiche, nonché per gli atomi e così via.
Quindi, la psiche animale, cioè la coscienza dell’organismo
di ciò che succede all’organismo, può essere vista semplicemente come l’apice
di una ipotetica piramide “di coscienza”, o meglio, di autocoscienza (concetto
rivoluzionato in filosofia da Hegel in poi). Autocoscienza presente nella vita
organica, e a rigor di logica, anche nella vita inorganica, giacché, come
abbiamo visto nella prima parte, tutto il mondo osservabile è il continuo
equilibrarsi tra ambienti a una data dimensione, e tali ambienti sono l’energia
che si stabilizza in legame, prendendo
la forma della materia, o viceversa.
Insomma, la vita è presente ovunque dall’inizio del Big
bang, ed è semplicemente ciò che esiste. Semplicemente la cellula è al limite
di quella dimensione dove la nostra conoscenza riconosce la vita in quanto mostra gli attributi vitali definiti dalla nostra
conoscenza.
Teniamo sempre presente che ad ogni dimensione vi sono spazi
e tempi, finiti e misurabili, per l’entità che ha coscienza “in” quella
dimensione “di” quella dimensione. Ad esempio in una cellula gli organelli
intracellulari misurano con i propri “metri” e costruiscono con metodo
scientifico le fibre collagene, le proteina, il DNA, etc.
La cellula come il cristallo sussistono con logica e
matematica. Logica e matematica sono il criterio, l’ordine, il senso, la
direzione attraverso cui l’energia si piega in materia e viceversa la materia
si dispiega in energia. Non ve ne sono altri: sono e possono essere solo ed
esclusivamente quelli il criterio, l’ordine, il senso e la direzione che
accadono di fatto e che una forma di
coscienza può osservare, tentare di riprodurre e anticipare.
Ad ogni dimensione, il criterio logico-matematico assume le
caratteristiche specifiche di quella dimensione relative all’osservatore. E se
in una data dimensione un osservatore può conoscere è proprio perché sono
costituiti del medesimo impasto, secondo il medesimo criterio, ordine, senso e
direzione.
Per concludere, possiamo fare le seguenti considerazioni.
Come situazioni estreme, un animale, che nulla sa dei propri organi e di come
funzionano, può “star male o bene” perché la sua psiche è ostacolata o favorita
nel raggiungere i suoi obiettivi esistenziali (“cinque libertà etologiche” [22]).
Ma tali obiettivi ricalcano proprio gli obiettivi necessari ai suoi organi
interni per “stare bene”: inevitabilmente è così, perché la psiche è il
prodotto finale supremo della concertazione di tutti gli organi per garantirsi
conservazione, mantenimento e riproduzione. Non altro.
Un animale può “stare bene” in senso esistenziale pure con
qualche suo organo che “sta male”: ma prima ne ha coscienza l’organo, poi
eventualmente, superati certi limiti di malessere, ne prende coscienza
l’organizzazione superiore. Questo perché l’organo è subordinato all’organismo,
cioè la sua esistenza deve essere funzionale all’organismo: se l’organo “sta
male”, non importa all’organismo se non oltre il limite che compromette la
sussistenza e la riproduzione dell’organismo. Cosi vale ad ogni livello della
gerarchia nella dimensione biologica: se l’individuo è ammalato, non crea
disturbo finchè non compromette la sopravvivenza della specie. Quest’ultimo
principio vige di fatto nel regno animale. Vige a rigor di logica nel regno dei
quark. Eppure non vige a rigor di etica per l’uomo, ancora sbalordito di fronte
al senso della sofferenza e della morte.
Qui dunque si sconfina di nuovo nell’etica, e siamo contenti
alla fine del nostro ragionamento, perchè constatiamo che le nostre analisi,
partite che più a monte non si può (il Big bang), tengono dignitosamente lo sguardo
rivolto a quei temi fondamentali, a valle, della Medicina.
3. Nuovi sguardi sull’Omeopatia
3.1 Il principio di
similitudine omeopatico: introduzione
L’omeopatia si basa essenzialmente su un principio: il
simile cura il simile (similia similibus curentur). Detto in parole semplici,
una sostanza che provoca specifici sintomi a dosi tossiche nell’organismo
sano, usata a dosi attenuate può
eliminare quegli stessi specifici sintomi quando sorgono insieme in caso di malattia spontanea.
Ora delucidiamo le parole chiave di questa frase. Ciò è
necessario per criticare più avanti alcune interpretazioni personali della
fisiologia animale e della farmacoprassia omeopatica. Già da adesso comunque
solleveremo nuove argomentazioni alla luce dei concetti elaborati fin qui.
Le dosi tossiche
Le dosi tossiche di una sostanza sono quelle che alterano
l’omeostasi di uno o più organi. Siamo abituati a pensare a ciò che è tossico,
come a ciò che altera un meccanismo fisiologico. Ora, però, possiamo ritenere che
ciò che è tossico è un’entità con cui l’organismo non è in equilibrio nella sua
meccanica funzionale, o nelle motivazioni di tale meccanica. Meglio ancora, un
agente è direttamente tossico se inceppa un meccanismo fisiologico, o
indirettamente se ostacola le motivazioni per cui sussiste un meccanismo
fisiologico. Così l’ossigeno fu ed è tossico per l’ambiente intracellulare come
l’aria radioattiva è tossica per sangue e polmoni. Eppure quando l’ambiente
dove si trovavano le prime cellule fu in esubero di ossigeno, le cellule si
sono strutturate in complessi che sfruttano l’ossigeno per raggiungere gli
obiettivi biologici cellulari: conservarsi e riprodursi (si rimanda al
paragrafo Evoluzione naturale). Ecco
allora che ciò che è tossico non è un male diabolico. Male diabolico non è
l’uranio come non lo è l’ossigeno: potrebbero magari risultare interscambiati
in altre galassie dove c’è vita, perché no? Diabolico se mai è utilizzare le
naturali proprietà tossiche di sostanze per distruggere ambiente o propri
simili.
In modo del tutto naturale tossico significa due cose: ciò
che in un ambiente è nuovo, e a cui un microambiente di tale ambiente non si è
ancora esistenzialmente abituato. “Non esistenzialmente abituato” significa non
aver ancora sviluppato una meccanica in equilibrio che gli permetta
l’attuazione delle motivazioni vitali: sussistere e riprodursi.
Detto questo, si comprende che la tossicità è relativa non a
una sostanza (un ambiente), ma al grado di equilibrio tra due ambienti (in
questo caso organo e sostanza). Tale grado è caratterizzato da spazi (le
quantità, cioè le dosi) e tempi (di somministrazione, cioè il dosaggio). Tale grado ha dei limiti
specifici.
Questo è un punto cruciale per comprendere i principi della
questione. Facciamo solo alcune ipotesi per assurdo.
È più probabile che un uomo muoia facendogli bere 5 litri di acqua in
mezzora, che non in 24 ore. È più probabile che un non fumatore muoia fumando
una stecca di sigarette in 6 ore che non in una settimana.
Dire “è più probabile” significa che si fa una media
statistica di dosi e dosaggi con un effetto. Ma potrebbero bastare 3 litri d’acqua nel primo
caso, od occorrere una stecca e mezza nel secondo. L’adattamento richiede spazi
e tempi specifici alle caratteristiche di interazione degli ambienti in
questione, oltre i cui limiti l’adattamento non avviene o non ha senso sapere
se avvenga o meno. Ecco perché più si conoscono gli estremi di un fenomeno, più
il fenomeno è controllabile: la media serve a rappresentarlo, non a controllarlo.
Addirittura in biologia lo rappresenta male: “congelandone” gli estremi si
rischia di idealizzarlo, e idealizzare un fenomeno in biologia significa
mistificarlo. Rappresentarlo con una media è comunque fondamentale per avere un
punto di riferimento nello studio di sintesi.
Ebbene, ogni medicina sperimentale alla base si prefigge di
studiare proprio questi estremi. Tuttavia. La medicina convenzionale usa (a
volte tristemente inventa!) le medie statistiche per avere un traguardo nella
visita medica. Le medicine non convenzionali usano (a volte tristemente
ignorano!) le medie statistiche per avere invece un punto di partenza nella
visita.
Con questi punti di riferimento concettuali, è ovvio che
assumono altri connotati anche la salute, i sintomi, la malattia.
I sintomi
Nelle varie medicine i sintomi hanno definizioni abbastanza
sovrapponibili, sennonché assumono un diverso ruolo naturale, e diverso peso
nell’iter diagnostico, terapeutico e prognostico. Essenzialmente comunque
rappresentano l’esternazione di un alterazione della fisiologia d’organo. Segni
e sintomi sono reali ed osservabili manifestazioni di uno stato di squilibrio
dell’omeostasi.
Ciò che mette in antagonismo la medicina classica e la
medicina non convenzionale, abbiamo detto, sono ruolo e peso biologico dei
sintomi. All’origine di tale antagonismo è l’attribuzione di un diverso grado
di reversibilità e di funzionalità che un sintomo può assumere in un quadro
patologico. Il limite nell’omeostasi che separa un’alterazione fisiologica da
quella patologica nelle medicine non convenzionali è spesso più ampio in senso
fisiologico. Un sintomo è molto più tollerato. Addirittura uno squilibrio che
per la medicina classica risulta patologico e da correggere, in medicina non
convenzionale in genere è fisiologico al recupero dell’omeostasi.
Il motivo per cui nelle due ottiche non si riesce a
confrontare questi limiti sono, come ormai appare ovvio, i metodi di indagine.
La medicina classica li confronta usando numeri, e non può che trovare ragioni.
La medicina non convenzionale indaga usando i quadri stessi dei sintomi, e non
può che trovare ragioni. Ma anche indagando con gli stessi strumenti,
risulteranno lotte spietate concettuali finché non si distinguono gli obiettivi
da misurare: se l’organo o l’organismo.
Ovunque mettiamo il limite tra fisiologico e patologico alla
luce delle nostre riflessioni, il sintomo è manifestazione di una reazione
dell’ambiente corporeo perturbato da uno stimolo nuovo, con cui esso può
riuscire o meno, per tempi e spazi, a sintonizzarsi. La riuscita o meno
definisce il patologico e il fisiologico.
La difficoltà per il medico compare nel tentativo di
comprendere quando tale riuscita può avverarsi o meno, cercando di identificare
gli obiettivi punti di non ritorno, in riferimento agli utilissimi paletti
delle nostre qualsivoglia misurazioni.
La malattia e l’organismo sano
La malattia è più facilmente definibile nel contesto
classico che, in genere, in quello non convenzionale, proprio perché i sintomi
assumono ruolo e peso biologici diversi. La malattia è classicamente intesa
come un quadro medio di sintomi che insorgono in modo caratteristico come
effetto di determinati agenti eziologici, interni o esterni all’organismo.
In omeopatia la definizione è un po’ più delicata. Nella
sesta edizione dell’Organon di Christian Samuel Hahnemann, medico vissuto a
cavallo fra XVIII e XIX secolo e fondatore dell’Omeopatia moderna, si legge:
Paragrafo 72:
«[…] Le malattie del genere umano sono di due classi. La
prima comprende processi morbosi della forza vitale ad andamento rapido, […]
chiamate “acute”. La seconda classe abbraccia malattie che spesso appaiono
trascurabili ed impercettibili al loro principio, ma che, in modo a loro
peculiare, agiscono deleteriamente sull’organismo vivente alterandolo
dinamicamente, minacciando subdolamente lo stato di salute a tal grado che
l’energia automatica della forza vitale, designata alla conservazione della
vita, può farvi solo resistenza imperfetta e inefficace, sia all’inizio che
durante lo sviluppo. La forza vitale incapace di estinguerle con le proprie
forze, impotente ad impedire il loro sviluppo, deve lasciarsi da loro
indisporre sempre più fino alla distruzione completa dell’organismo. Queste
sono le malattie “croniche”, originate da miasma cronico».
Paragrafo 76:
«La Provvidenza ci ha
concesso di guarire mediante l’omeopatia soltanto le malattie naturali. Ma le
malattie prodotte da indebolimento per cure cervellotiche eseguite magari per
anni […] dovrebbero venire eliminate dalla forza vitale stessa, purché essa
non si trovi indebolita da tali pratiche dannose […]».
Paragrafo 77:
«Il nome di malattia cronica non va dato a quelle
prodotte da esposizione continuata ad agenti nocivi evitabili, da eccessi
abituali nel mangiare e nel bere, e di altra specie alteranti la salute; né a
quelle malattie risultanti per mancanza del necessario per vivere, dall’abitare
in località malsane e eminentemente paludose; né a quelle peculiari agli
abitatori di prigioni, di officine umide o di altri luoghi confinati,
sofferenti per la mancanza di aria libera e di movimento, né a quelle che sono
la risultante di troppo lavoro manuale o intellettuale o di continue
mortificazioni e patemi d’animo ecc. Purché non esista un miasma cronico nell’organismo, tali stati morbosi, così acquisiti,
spariscono da sé con regime appropriato di vita e non possono essere denominati
malattie croniche». Paragrafo 78:
«Malattie croniche,
vere, naturali, sono quelle dovute a un miasma
cronico. Esse crescono costantemente e nonostante il regime di vita
igienico sia del corpo che della mente non cessano di tormentare la loro
vittima, con sofferenze costantemente nuove fino alla fine della vita, se
vengono lasciate a sé senza l’aiuto di rimedi specifici. Esse sono le malattie
più numerose e costituiscono la sorgente di gravi sofferenze per il genere
umano. Le costituzioni più robuste, le abitudini migliori, l’energia della
forza vitale, per quanto grande sia, non aiutate, sono incapaci di resistere a
tali malattie (*).(*) Negli anni più fiorenti
della giovinezza ed al principio della mestruazione normale, anche associando
un metodo di vita igienico per lo spirito, il cuore e il corpo, le malattie
croniche rimangono per molti anni nascoste. I colpiti da esse sembrano per
questo agli occhi dei parenti e conoscenti come persone assai sane, come se la
malattia, acquisita o ereditaria, fosse del tutto scomparsa. Essa malattia però
con il progredire degli anni, per avvenimenti e circostanze contrarie alla
vita, sicuramente si ripresenta e cresce tanto più, acquista un carattere tanto
più grave, quanto più il principio vitale è stato scosso da passioni
debilitanti, da affanni, da stenti, e soprattutto da trattamento medicamentoso
disadatto».
Innanzitutto, come si riscontra in tutta l’opera di Hahnemann,
l’autore si scaglia contro l’impiego di medicinali volto a contrastare la
comparsa di un sintomo secondo il criterio opposto al principio di
similitudine. Il principio contraria
contrariis curentur, tipico dell’allopatia da Galeno in poi. Egli sottolinea
come molte malattie siano il risultato proprio di terapie eseguite con questo
criterio.
A mio avviso l’astio di Hahnemann non è rivolgibile al
moderno utilizzo del principio allopatico. Si sa che a quel tempo i mezzi di
sperimentazione erano davvero limitati. L’allopatia non era ancora
scientificamente comprovata ma un’arte improvvisata. Forse Hahnemann aveva in
odio il termine “allopatico” non tanto per il principio in sé, quanto per i risultati
da esso scaturiti a seguito di un suo uso arcaico. Forse Hahnemann non
nutrirebbe saggiamente odio per i risultati ottenuti oggi in alcuni settori
della farmaceutica, che ha messo a disposizione (per quanto in pochi casi
rispetto a quelli sponsorizzati) molecole in grado di compensare notevoli
disturbi con minimi effetti collaterali. Pensiamo inoltre come l’uso di sicuri
anestetici e antidolorifici ha contribuito ad evitare enormi sofferenze e
disagi.
Hahnemann stesso nel paragrafo 67 dell’Organon parla dei
casi in cui l’allopatia si deve usare: i casi acuti che mettono in pericolo di
vita, nei casi in cui occorre ristabilire un vigore agli organi vitali, nei
casi in cui è necessario antidotare. Quindi l’omeopata saggio non dovrebbe mai
essere a priori contro l’allopatia, quella saggia, così come non lo deve essere,
sempre a detta del Maestro, contro la chirurgia, quella saggia.
Ma Hahnemann va ben oltre. Vi sono una serie di malattie di
origine ambientale, del tipo descritte nel paragrafo 77, che una volta
instauratesi basta eliminare l’agente eziologico e senza alcuna cura
l’organismo guarisce. Vi è una energia equilibratrice, la forza vitale, che tende a rimettere ordine ogniqualvolta un insulto
esterno disordina l’omeostasi dell’individuo.
La forza vitale
può bastare a reagire a uno stimolo di cambiamento e far guarire. Oppure non
bastare, e soccombere. La forza vitale (che coincide comodamente con
l’equilibrio energetico-materiale di un ambiente) può quindi non bastare.
Ma allora chiediamo al Maestro: se ipoteticamente isoliamo
l’uomo da agenti perturbanti esterni, la forza vitale rimarrebbe intatta e
l’organismo sano? Egli ci risponderebbe decisamente no!
Per natura, constata Hahnemann, anche non soggetta a insulti
nocivi, la forza vitale perirebbe piano piano a causa di ciò che egli denomina miasma cronico: una malattia cronica costituzionale che accompagna in modo
subdolo l’esistenza di ogni individuo.
Ora, Hahnemann non aveva nozioni di evoluzione naturale,
genetica, virologia, quantistica. Sono state fatte fior di disquisizioni sulle
accezioni di forza vitale e miasma cronico. Si è persino attribuito alla psora primaria (il miasma di fondo di
ogni costituzione) il significato di peccato originale. Ben venga anche tale
interpretazione, ma prima di un’accezione teologica bisogna attribuirle un
significato biologico scientificamente accettabile.
Non occorrono con le nozioni moderne grossi sforzi
metafisici per comprendere come il miasma costituzionale di cui parla Hahnemann
sia il normale processo di invecchiamento cui l’individuo è soggetto e che
l’individuo attua nello specifico sempre più marcatamente una volta raggiunta
l’età riproduttiva.
L’invecchiamento è universale perché riguarda ogni uomo (come
il peccato originale, certo, ma pare che l’uomo invecchiasse anche prima di
esso: «Siate fecondi e moltiplicatevi», Gen 1,28). L’invecchiamento è
costituzionale perché genetico, e quindi, pur nell’universalità, specifico nei
tempi e nei modi per ogni individuo. L’invecchiamento è subdolo perché lento,
impercettibile, continuo, come i milioni di difetti genetici che ogni giorno il
nostro DNA accumula ad ogni divisione cellulare, per cui ogni giorno, a mano a
mano che gli anni passano, ci ritroviamo cresciuti, cambiati, diversi. Progressivamente
più acciaccati.
L’accumulo progressivo dei difetti genetici culmina nella
morte dell’individuo. Detta morte è quella di cui abbiamo paura perché quella è
la morte che sperimenta la psiche. Ma vi è una morte, quella cellulare, che sperimentiamo
ogni giorno e non ne abbiamo coscienza. Morte che non temiamo perché non la vive
la pische, eppure è l’unica causa diretta proprio di quella morte finale.
Se la psora, il miasma cronico costituzionale dell’uomo, è
l’invecchiamento con tutte le sue evidenti conseguenze, la forza vitale
inevitabilmente ne è succube, anzi: ne è ovviamente inversamente proporzionata.
È sorprendente come nella postilla del paragrafo 78,
Hahnemann specifichi che già negli anni più vigorosi della piena maturità
sessuale, il difetto e l’imperfezione della costituzione non si vede ma c’è, e
comparirà di lì a poco. Secondo le moderne teorie evolutive
dell’invecchiamento, i geni, nella prima parte della vita hanno funzione di
sviluppo, mentre nella seconda parte sono programmati all’invecchiamento e alla
morte (pleiotropismo organico)[7]. Avvenuta la riproduzione infatti, dal punto
di vista della specie è molto costoso, e quindi non conveniente, mantenere
indefinitamente un corpo. Perciò viene gettato una volta assolto il compito di
evolvere la specie (teoria del “soma usa e getta”) [7]. Come dire… per esser
santi non occorrono atti di eroismo nel morire per il prossimo: succede già
naturalmente. Meno naturalmente, non lo accettiamo.
Forse questa non accettazione deriva dal fatto che la psiche
umana si incanta a un senso di onnipotenza durante quella prima fase della vita
che ci porta fiorendo a sentirci giovani e forti, consapevolmente e inconsapevolmente.
Consapevolmente siamo portati a crescere per realizzare
direttamente o indirettamente qualcosa che possa renderci felici
(“psichicamente equilibrati”), e se non lo realizziamo vogliamo comunque non
far passare inosservato il nostro sforzo e comunicarlo. Inconsapevolmente
invece, guardandoci da fuori e da un punto di vista ben preciso, siamo ambienti
che evolvono “con” e “in” altri ambienti, e la nostra felicità persegue quindi il
miglioramento di un preciso equilibrio.
Questa visione moderna della realtà dovrebbe bastare a
rivalutare le definizioni di termini quali miasma psorico e forza vitale. Non
per sostituirli, di nuovo, ma per integrarli, se l’obiettivo è evolvere.
Concentriamoci ora su cosa si propone di fare in concreto
l’omeopatia. Come si legge nella prima parte del paragrafo 78, tutta la scienza
del procedimento medico omeopatico serve a mettere a disposizione della forza
vitale un aiuto contro il miasma psorico: il rimedio omeopatico.
Detto così, è come dire: la procedura omeopatica serve a
preparare una sostanza che, data secondo i criteri omeopatici, evita
l’invecchiamento! Ebbene, l’omeopatia per principio non è mai medicina che contrasta. L’omeopatia non evita
l’invecchiamento, ma lo può guidare.
La legge della similitudine sussiste su un’osservazione
riportata al paragrafo 26: «Un’affezione dinamica debole viene duramente
cancellata da un’affezione più forte, se questa, differendo per qualità, le è
assai simile nella sua manifestazione». Nei paragrafi successivi, dal 27 al 33,
Hahnemann avanza una personale spiegazione di ciò. I rimedi esplicano cioè il
loro effetto provocando una perturbazione che fa svanire quella naturale. Non
la sovrasta, ma la fa svanire, in quanto fa prendere una scorciatoia al
riequilibrarsi dell’individuo.
Analizzeremo tra poco con occhi nuovi il modo in cui
verosimilmente si prende tale scorciatoia.
Ora invece sottolineiamo che tutto ciò, è concepibile solo
abbandonando una concezione che ha accompagnato l’uomo dalle caverne fino ad
oggi: che la malattia è un male, contro un bene che è la salute. Il fenomeno
omeopatico è scientificamente comprensibile solo vedendo la malattia come
l’interfaccia tra due equilibri che tentano di sintonizzarsi. E sono state date
sopra le coordinate per vederlo.
Se così non fosse, non ci spiegheremo come e perchè la
natura abbia puntato così poco sul suo essere più evoluto, l’uomo, dal momento
che ancora cede a un essere così primitivo e insignificante come un virus, e vi
possa soccombere nel giro di pochi giorni. Invece è proprio perché l’obiettivo
in natura è stabilizzarsi attraverso
equilibri in divenire, che il DNA non può permettersi negli organismi di
rimanere fisso: deve mescolarsi e rimaneggiarsi continuamente. Lo fa da una
generazione all’altra strapotentemente in un momento precisio (il crossino-over meiotico), ma anche
attraverso certe strategie di “vagabondaggio” che noi chiamiamo virus e
batteri.
L’omeopatia guida l’invecchiamento nel senso che, se ben
usata, fa sì che gli squilibri naturali non prendano la strada di squilibri
innaturali, sfociando negli eccessi. Da questa affermazione in poi il problema
è enorme, per due motivi. Primo perchè si entra nel campo di definizioni
relative, in quanto sono relative le considerazioni sull’ “eccesso”; ma ci si
può sempre mettere d’accordo. Secondo, l’omeopatia ha quell’effetto se fatta
bene. Impresa più unica che rara, e non solo. Su questi casi straordinari, per
quanto evidenti all’universale umana ragione, pare non convenga economicamente
comunque trovarsi d’accordo.
Un’ultima analisi. C’è un fenomeno evidentissimo, confermato
con semplici esperimenti e conosciuto da sempre, che se analizzato con nuovi
occhi come ci stiamo abituando a fare, dà man forte al nostro percorso.
Il fenomeno che rivoluziona il significato di malattia in assoluto, è quello psicosomatico, rappresentato in genere
dall’effetto placebo. Distinguiamo subito la psicosomatica dalla somatizzazione. Questa ultima è un
fenomeno psichiatrico per cui il paziente confonde una sofferenza psicologica
con un problema fisico [24]. La malattia psicosomatica
invece è una vera e propria malattia fisica, il cui agente eziologico è un
disturbo emotivo [24].
L’effetto placebo è la modificazione fisiologica analoga a
quella indotta da un farmaco che si suppone di aver assunto, quando nella
realtà si è assunto sostanza inerte [7]. I meccanismi che scatenano l’effetto
placebo quindi sono gli stessi che alla base scatenano le malattie psicosomatiche.
Curioso è che la medicina classica sia molto scettica sulla psicosomatica, pur
facendo i conti in ogni sua sperimentazione con l’effetto placebo.
La psicosomatica ci mette in guardia sui punti di
riferimento da cui guardiamo la malattia, e ci apre nuovi orizzonti.
Abbiamo detto che il sintomo rappresenta di per sé il
momento di squilibrio-riequilibrio tra ambienti. Siamo abituati quindi ad
osservare che tale turbamento (il sintomo) scaturisce dall’interazione
incidente tra un agente fisico, chimico o biologico (un ambiente) e il nostro
corpo (un altro ambiente). Ora però le malattie psicosomatiche ci mostrano
un’altra possibilità: è la nostra psiche, il nostro pensiero, la nostra
emotività ad attivare tale turbamento, a dare la scossa squilibrante-riequilibrante.
Quindi c’è la possibilità che l’ambiente organico stesso crei spontaneamente
disordine dentro di sé. Questa prerogativa nell’animale superiore spetta alla
psiche, la sede della memoria emotiva, che inevitabilmente consegue e persegue
le nostre motivazioni vitali.
La comprensione di meccanismi
e motivazioni che portano una
malattia a instaurarsi nelle due direzioni, non più solo una, è obiettivo della
Medicina integrata.
Quest’ottica è fondamentale, perché significa ambire,
partendo delle leggi di un singolo ambiente biologico, a comprendere le leggi
dell’equilibrio tra ambienti biologici, o tra sistemi di ambienti biologici.
Ma mi si permetta una digressione. Nella nostra trattazione
si parla ormai di meccanismi e motivazioni come se fossero due facce della
stessa medaglia. Suona molto male al modello classico la parola motivazione, perché la scienza vuole
spiegarsi come non perché avviene un fenomeno. Eppure
meccanismi e motivazioni in natura non possono che essere due lati di una
stessa medaglia. Non è il caso di essere ripetitivi soffermandoci ancora sulle
distinzioni che è necessario fare affrontando questo dilemma. Non è neppure il
caso di essere ridondanti nel dare spiegazioni ad ovvie deduzioni. Ma per
conoscere la natura di un fenomeno è inevitabile che un uomo si chieda “perché avviene ciò?”: sondare “come avviene ciò?” è l’unica strada
per conoscere quel perché. Metaforicamente, il “perché” è un traguardo
(innato) e il “come” è il percorso per raggiungerlo (obbligatorio).
Lo stregone primitivo somministrava una pozione, e il malato
talvolta guariva: come non si sa, ma il perché era un miracolo. Ora l’urologo
dà un diuretico, e il sintomo quasi sempre scompare: si sa il come, del perché conviene lasciar perdere.
La differenza tra queste due medesime azioni, è un processo
conoscitivo.
Ma questo processo non nasce con le università. Questo
processo cognitivo lo compie, come detto altrove, inevitabilmente e
quotidianamente ogni uomo dal primo all’ultimo giorno della sua vita. L’uomo
che si vanta di essere “vero scienziato” è un uomo a metà che si preoccupa solo
del percorso: ciò gli basta e non
vuole un traguardo. Così l’uomo che si vanta di essere “vero religioso” è uomo
a metà che contempla solo un traguardo:
ciò gli basta e non vuole un percorso per raggiungerlo. Ma non si senta geniale
chi abbraccia l’una o l’altra visione del mondo. È una menomazione della natura
umana concepire l’una o l’altra cosa come una “scelta vocazionale”. Ogni uomo è
scienziato e religioso, ogni uomo è vocato ad entrambe le scelte, perché per i
fini della sua esistenza deve usarle insieme e in modo interdipendente.
Le dosi attenuate
Le dosi attenuate sono la colonna portante della terapia
omeopatica. Ogni critica sollevata all’omeopatia, fondata o fittizia, è su come
una dose attenuata di una sostanza possa avere effetto biologico contrario a
quello della sua dose ponderale.
Il cursus studiorum
di Hahnemann, passando per l’approfondimento della chimica e della
tossicologia, gli permise semplicemente di osservare che ciò accadeva nei fatti.
La sperimentazione omeopatica dimostra che la metodica
omeopatica non nasce da preconcetti inventati, ma da fenomeni empiricamente
osservabili. Una sostanza assunta a dosi tossiche provoca specifici sintomi.
Detti sintomi, quando appaiono fortuitamente con quella specificità rispondono alla somministrazione di dosi
infinitesimali di quella sostanza.
Hahnemann intuì tale risposta da dati clinici di campo, a
partire dall’osservazione della risposta della malaria alla china. Però una
cosa è intuire la corrispondenza tra causa-effetto di un evento naturale:
affinare una strategia per rendere ripetibile tale corrispondenza è un’altra!
Immaginiamo ora che in condizioni naturali vi sia una
bassissima probabilità che un evento (causa-effetto) si manifesti: tanto più
difficoltoso è fare osservazioni a riguardo per ricavare la legge che descrive
quell’evento. Compresa la legge, immaginiamo che la riproduzione di
quell’evento giochi su diverse variabili. Quanto più tali variabili sono poco
controllabili, tanto più difficoltoso sarà riprodurlo.
In condizioni del genere, Hahnemann riuscì sia a ricavare
una legge (della similitudine) che a stabilire un metodo alquanto affidabile
per riprodurre un evento di guarigione, che denominò omeopatico.
Dico “alquanto affidabile” perché lo stesso Hahnemann
rivoluzionò via via il suo metodo, e per quanto lo avesse affinato oltre ogni
limite attuabile nell’arco di una vita pur longeva, sicuramente lo ritenne
sempre perfettibile. Per questo Samuel Hahnemann, nato illuminista e morto da
romantico in perfetta sintonia con l’epoca storica che attraversò, fu un genio.
Gli ci volle una vita intera, ma questa fu la sua impresa.
Impresa di cui oggi, nonostante la tecnologia, ancora fatichiamo a goderne i
benefici, per il semplice fatto che ne rifiutiamo il metodo aprioristicamente
perchè stravagante.
La stravaganza è appunto la dose attenuata. Per Hahnemann significa dosi ponderali bassissime
all’inizio delle sue osservazioni sulle similitudini (tra l’altro millenarie).
In seguito significò dosi dinamizzate (sinonimo
potenze) nell’elaborazione della sua
dottrina omeopatica. Descriviamo brevemente in cosa consiste questa
stravaganza. La discuteremo alla luce di nuove riflessioni nei prossimi due
paragrafi.
Mentre, com’è palese, per ottenere una dose attenuata è
sufficiente diluirla, per ottenere una dose dinamizzata occorre diluirla e
scuoterla a lungo energicamente con contraccolpo. Hahnemann descrive
minuziosamente sempre nell’Organon la preparazione di un medicinale omeopatico,
tale in quanto dinamizzato (non più detto “farmaco” ma “rimedio”).
La cosa degna di nota per noi è che in tutta la procedura,
dalla materia prima al rimedio finito, la sostanza naturale di base è sottoposta
a vero e proprio massacro. Ore di triturazione, ore di decantazione, filtraggi,
scuotimenti… fino all’esaurimento fisico! Della sostanza e di chi la prepara.
Ecco, la cosa che più ci dovrebbe incuriosire della dose dinamizzata è come tutto il
processo che la ottiene tenda in un certo qual modo a fare “esplodere” la
sostanza di origine. Anzi, più la si fa “esplodere” (alte potenze) per il caso
adatto, più il suo effetto sarà dolce, rapido e duraturo. Come dire: più la
materia è fatta “esplodere”, più incide efficacemente sul riequilibrio del suo
simile energetico.
Ne abbiamo già incontrate di esplosioni. Ciò dovrebbe
incuriosire.
3.2 Il principio di similitudine omeopatico: un indizio biologico
Il metabolismo. Meccanica motivata.
Un principio di organizzazione è requisito fondamentale per la vita. Ma, abbiamo detto,
non è la sua prerogativa.
La sabbia è sabbia, il diamante è diamante, il DNA è DNA
perché l’equilibrio chimico di quei legami portano a quell’organizzazione
dimensionale. Ciò che contraddistingue il minerale dal DNA non è la struttura
organizzata, quanto la capacità di riprodursi. Capacità che presuppone
evidentemente una volontà, rientrando in filosofia. Ma dire capacità significa anche dire funzione, e non si fa affatto filosofia
identificando nel metabolismo la
funzione vitale che distingue un cristallo minerale dal DNA. La vita può
riprodursi e sussistere se vi è un metabolismo.
Certo il DNA non ha metabolismo proprio e si avvale di una
molteplicità di molecole organiche per duplicarsi. Perciò la prima forma
metabolica compare tramite un complesso di apparati cellulari, e riconosciamo
nella cellula infatti la più piccola unità vivente.
Possiamo però fare alcune osservazioni. Possiamo infatti
riconoscere che il DNA è per l’intera comunità cellulare come un magazzino di libri,
e questi libri sono i progetti su cui è scritto come costruire i componenti
dell’ambiente cellulare stesso trasformando ciò che si trova nell’ambiente.
Penso sia logica l’idea che le prime comunità di molecole organiche che si sono
trincerate dall’ambiente circostante specializzando una membrana, fossero
capaci anche senza DNA di riprodursi (suonerebbe ironicamente meglio
“fotocopiarsi” visto che la prima forma di metabolismo era fotosintetico). Solo
quando le attività metaboliche si sono complicate hanno richiesto un deposito
di nozioni, sviluppandone uno efficientemente specializzato come il DNA. Tutta
la natura (non solo l’uomo, suo ultimo prodotto) fa economia in modo
logico-matematico: difficile ipotizzare che specializzi una funzione prima che sia
necessaria (*). Ma abbiamo anche altri indizi per ritenere
che sia così.
Oggi si osserva nelle encefalopatie spongiformi che alcune
proteine cellulari (PrPc) sono
convertite in proteine prioniche (PrPsc) proprio da quest’ultime. Ossia
un prione PrPsc è in grado di convertire una proteina normale PrPc in prione
PrPsc, e non il contrario. Da questa reazione a catena deriva l’accumulo di
sostanza fibrillare nei neuroni e la loro degenerazione.
Non è dimostrato che ci sia DNA a intermediare questa
reazione. Con i mezzi di indagine a disposizione nel 2008 possiamo star certi
che l’evidenza è che una proteina può convertire in un’altra proteina alquanto
differente, senza DNA.
Dovremmo valutare questo elemento molto attentamente. I
prioni sono proteine che osserviamo nel 2000 d.C. Se i rettili 200 milioni di
anni fa erano dinosauri e oggi sono lucertole, come possiamo pensare che le
proteine delle prime comunità organiche, alla loro comparsa 3 miliardi di anni
fa, avessero proprietà e struttura uguale a quelle odierne? Non è legittimo
pensare che le proprietà di ciò che chiamiamo “proteina” siano andate
modificandosi, perdendo e acquisendo funzioni nel tempo, con la plasticità che
caratterizza tutta l’evoluzione? Non è legittimo ritenerlo anche per gli acidi
grassi e gli zuccheri? Certo, dei dinosauri abbiamo i fossili. Ma delle
molecole organiche di allora dubito ne avremo. Ma i dinosauri sarebbero stati
mostri mai esistiti per l’intellettuale del Rinascimento come per noi queste
proteine se mai le vedremo. Invece possiamo intuire logicamente che i prioni
abbiano un retaggio di una elementare funzione, molto simile a quella delle
primordiali molecole organiche che avevano un metabolismo proprio. Metabolismo
che le faceva riprodurre in quelle prime comunità senza DNA. Da lì in poi,
l’associazione di fenomeni chimico-fisici (come la fotosintesi) paralleli ai
fenomeni di duplicazione, si sarebbero evoluti via via che l’ambiente cellulare
evolveva.
Associandosi la materia-energia si struttura. L’associazione delle cose esistenti è la via attraverso cui in natura evolvono
cose nuove. Come è ben descritto nei Principia Cybernetica, la facoltà del
pensiero umano si sviluppa grazie ad una capacità associativa [20]. Così le
prime comunità organiche. E ogni associazione a quanto pare esita in
un’esplosione riequilibrante.
Se alla base il metabolismo è una via di trasformazione
della materia in energia e viceversa, concludiamo che tutto l’universo ha un
metabolismo. Semplicemente il metabolismo organico è motivato: è un metabolismo motivato
dalla riproduzione (**).
Questa non è una ipotesi scientifica da dimostrare. Questa è
osservazione di ciò che accade. La termodinamica, la statistica, la matematica,
possono descrivere come ogni altro fenomeno biologico anche il metabolismo. Ma
lo descrivono e basta. Come per ogni altro fenomeno biologico, conoscerlo e
controllarlo significa non solo descriverlo meccanicamente, ma anche
individuarne i moventi e le finalità, perché il metabolismo è per definizione motivazione.
Riprendiamo quindi dalla considerazione fatta sopra. La vita
può riprodursi e sussistere perchè vi è un metabolismo. Didatticamente (senza
sconfinare in DNA e in comunità di individui, i cui metabolismi sono appunto in
dimensioni a noi poco o nulla
empirici in senso di materia organica) nel regno animale si distingue un metabolismo cellulare e un
metabolismo dell’individuo. Nella pratica, il secondo deve soddisfare il primo,
e il primo si è meravigliosamente organizzato in natura per sviluppare il
secondo. Abbiamo finora, nei vari paragrafi, accennato all’evoluzione del
metabolismo cellulare. Ora analizziamoli insieme.
* Si è scritto “specializzi”, non
“inventi”.
** Forse, e ripeto che è ipotesi personale,
tutta la materia, inorganica e organica, ha un metabolismo motivato alla
riproduzione. Semplicemente si riproduce ad ogni dimensione con modalità
spazio-temporali proprie. La riproduzione come noi la viviamo fa parte di un
processo universale, metaforicamente, di “fioritura” di tutta la
materia-energia; “fioritura” che esita nelle sue strutturazioni a noi
osservabili dal Big bang in poi.
Dalla dimensione cellulare a noi, tale
“fioritura” avviene con le modalità della riproduzione mitotica e meiotica. Una
comunità umana (la città) si riproduce con tutt’altre modalità. Ma si riproduce.
«Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior…» (*)
Le tappe che dal metabolismo dell’individuo portano al
metabolismo cellulare e viceversa non sono poi così tante come viene da
supporre ammirando uno sopra l’altro un libro di fisiologia animale e uno di
biochimica. Generalizzando, lo scopo di tutto il “movimento” che compie
l’animale in un qualsiasi giorno della sua esistenza è procacciarsi il cibo
(sussistere) per esser pronto all’occasione di riprodursi (2*).
Ebbene lo scopo di tutto il “movimento” che avviene dentro la cellula animale
durante la sua metaforica giornata è procacciarsi il cibo per esser pronta
all’occasione si riprodursi. Non cambia assolutamente nulla.
Nutrirsi è il mezzo per raggiungere gli scopi di tutta la
natura animale (mantenersi per riprodursi) che a sua volta è l’unico modo per
creare qualcosa di nuovo, meglio
adattato, più in equilibrio con l’ambiente.
Tutto il processo di nutrizione, la digestione del cibo e il
suo metabolismo biochimico, mettono in luce come l’animale è “in” un ambiente
“in cui” vive. Ma questa visione deriva osservando da un punto di riferimento
preciso: l’animale stesso, e per noi viene facile, perché noi lo siamo. Ma da
un punto di riferimento quel tanto lontano nel tempo e nello spazio da
osservare tutto ipoteticamente dall’esterno, si vedrà facilmente che l’animale
“è” l’ambiente “di cui” vive.
Nei vermi (i Protostomi: pseudocelomati come i Nematodi, od
eucelomati come gli Anellidi [1]) compare una prima sofisticata forma in natura
di apparato digerente animale: un tubo di cellule attraverso cui passa
semplicemente terra o acqua a seconda che siano terrestri o acquatici, e sempre
semplice terra o acqua è ciò che esce dal loro ano. In questo percorso terra ed
acqua si depauperano di sostanze che servono per il metabolismo delle cellule
che costituiscono tutto il verme.
Nessun paragone metafisico con il verme (3*),
ma nelle nostre anse intestinali entra la stessa medesima cosa. Entra terra appena
un po’ più “strutturata” in frutti e vegetali, e frutti e vegetali appena un
po’ più strutturati in prodotti di origine animale. Ed esce poi quella cosa
che, forse unica in natura, infastidisce in un solo colpo tutti i sensi umani,
ma senza la quale la terra non sarebbe terra ma sabbia, e dalla quale non uscirebbero
più frutti e vegetali.
L’animale quindi è terra che si struttura, organizzata e
motivata a delle funzioni. Già questa è una verità non solo scientifica ma
anche religiosa. Da qui allora si dovrebbe partire per capire, in senso
culturalmente universale, e non più in senso o scientifico o religioso, cosa
organizzi e motivi tutto il movimento che compiamo nell’arco della giornata.
Proviamo a fare alcune osservazioni metafisiche, ovviamente
partendo da quelle fisiche. Proviamo a vedere al di sopra della distinzione
zoologica tra “omologia” [1][8] e “analogia” [1][8] d’organo, troppo relativa a
punti di osservazione a noi troppo vicini (i criteri tassonomici zoologici).
Aldilà di analogia tra ali d’insetti, di uccelli e di pipistrelli, e di
omologia tra pinne di mammiferi acquatici e arti di mammiferi terrestri, si può
benissimo osservare come un organismo superiore integri forme e funzioni di un
organismo inferiore. Una forma corrisponde sempre a una funzione, aldilà di
analogie e omologie. Così in natura ha preso forma il verme, primo animale che
filtra di continuo il terreno e la cui funzione vitale più specializzata è
l’assimilazione continua e diretta dei principi nutritivi. Le anse intestinali
degli animali superiori, specializzate per lo stesso compito, da lì in poi
hanno proprio la loro forma. Addirittura in una simbiosi mutualistica vermi e
anse intestinali formano, in alcune specie di mammiferi erbivori ruminanti, un
unico ambiente più efficiente per la funzione digestiva [28]. La simbiosi
parassitaria saprofitica quindi, che appare un normale “male”, altro non può
essere che un tentativo inceppato di evoluzione a quella mutualistica, come è
inevitabile che succeda nell’evolvere un equilibrio. Così in natura ha preso
forma l’artropode, primo animale con appendici evolute a forma di leve per
spostarsi e afferrare oggetti anche più grandi di lui, e le estremità delle
appendici degli animali superiori hanno proprio quella forma.
Guardando all’essenza, ogni forma naturale è la forma di
equilibrio energia-materia più adeguata in una dimensione per assolvere una
funzione.
L’equilibrio dell’habitat terrestre ha portato alla
formazione prima del metabolismo vegetale, che immagazzina energia in materia,
e in seguito del metabolismo animale, che dissipa la materia in energia. Il
movimento distingue il vegetale dall’animale. Fermo e “freddo” il primo, che
deve materializzare l’energia. In
movimento e “caldo” il secondo, che deve energizzare
la materia. Senza
dimenticare che tutto è in continuità nei loro metabolismi.
Ora, “energizzare la materia” in teoria è una neolocuzione per la lingua italiana. “Energizzare
la materia” in pratica invece è ciò
che avviene in ogni individuo animale in tutto il pianeta ogni giorno. Ma
“Energizzare la materia” è anche il pane quotidiano, sia in teoria che in
pratica, di chi tenta la medicina di Christian Samuel Hahnemann.
È arrivato il momento di citare le riflessioni del premio
nobel per la medicina e fisiologia (1973) Konrad Lorenz, nonché fondatore dell’etologia
moderna con i suoi studi sull’imprinting specie-specifico. Le sue osservazioni
vale la pena davvero riportarle tal quali in questa sede, e faranno da
congiunzione tra i concetti finora espressi e quelli che elaboreremo.
In un manoscritto compilato tra il 1944 e il 1948 durante la
sua prigionia in un campo di concentramento sovietico in Armenia, nel capitolo
“Premesse filosofiche”, esaminando le speculazioni ora di Immanuel Kant ora di
Johann Wolfgang Goethe, Lorenz afferma:
«Un mondo reale, multiforme,
variopinto. Un mondo costituito di materia indistruttibile ed energia
indistruttibile. Un mondo con un qualcosa dietro le nostre forme conoscitive
dello spazio e del tempo. Questo mondo è esistito per un tempo infinito, prima
che un cervello organico tentasse di abbozzare, con le sue capacità
strettamente limitate, un’immagine grossolanamente semplificata di tale mondo.
Prima che un cervello organico fosse in condizione di capire nelle
similitudini, nelle “cifre” dello spazio e del tempo, della sostanza e della
causalità, il “rapporto” su questo mondo che ci viene trasmesso».
«[…] è il confronto di cose reali con
cose reali nel corso di miliardi di anni, che ha dato a ciascun organo di ogni
essere vivente esattamente quella e non altra forma. Naturalmente in questo
confronto anche gli organismi hanno in qualche misura piccolissima influenzato
e cambiato il mondo inorganico».
«In generale la materia organica che
ricopre il nostro pianeta come una sottile “pellicola di muffa” nella sua dura
battaglia con le spietate leggi della natura inorganica […]* ha dovuto
adattarsi a queste leggi e ha potuto svilupparsi solo in forme tali da rendere
il singolo organismo capace di
sostenere questa dura lotta per l’esistenza».
«[…]*leggi che sono incomparabilmente
più vecchie della creazione organica, che operano indipendentemente
dall’esistenza o meno dell’organico, e che governano la materia organica
altrettanto che quella inorganica».
«L’acqua del mare ha battuto le sue
onde per milioni di anni, e a tuttoggi continua a farlo, prima che delle pinne
cominciassero a solcarla. […] Quando hanno avuto origine le prime pinne, che
grazie alla loro forma sono capaci di fendere l’acqua, tale forma è stata
determinata da peculiarità che l’acqua ha sempre avuto e sempre avrà,
indipendentemente dal fatto che esistano pinne che si confrontano con queste
peculiarità»
«Il sole ha continuato a splendere per
miliardi di anni, come oggi pure fa, prima che degli occhi ne intercettassero i
raggi. […] Quando hanno avuto origine gli occhi i quali grazie alla loro
struttura sono capaci di riunire raggi solari sulla loro retina, tale struttura
fu determinata dalle leggi dell’ottica cui i raggi luminosi erano state e
sempre saranno soggette, indipendentemente dal fatto che esistano occhi capaci
di intercettarli oppure no»
«Già un organo la cui prestazione per
la conservazione della specie non
consiste nel ricopiare le cose reali, ma in un confronto puramente meccanico
con una di esse molto precisamente determinato, attraverso l’adattamento alla
sua prestazione diventa sempre in un certo qual modo un’ immagine di quella cosa, la sua controparte “contrappuntistica” per
dirla con le parole di Jakob von Uexkull. La forma dell’organo è in un certo
senso il negativo. Lo stampo degli immutabili dati del mondo esterno inorganico
nella matrice plastica della sostanza organica».
«Così la pinna del pesce, nella sua
forma e ancor più spiccatamente nel suo movimento, è immagine dell’onda. Lo
zoccolo del cavallo è altrettanto uno stampo del terreno della steppa […]. La
stessa cosa vale, forse ancor più immediatamente, per gli organi sensoriali, la
cui prestazione per la conservazione della specie è riprodurre determinati dati
della realtà extrasoggettiva. L’analogia fra l’organo adattato alla specifica
prestazione di riproduzione del reale, e il reale da riprodurre, si spinge qui
anche oltre. «Se l’occhio non fosse simile al sole, non potrebbe mai guardare
il sole» così Goethe non sbagliava nel vedere
che nella sua forma a palla, nella struttura a raggiera dell’iride,
l’occhio è un piccolo “controsole”, e nella funzione del cristallino e nella
retina uno stampo contrappuntistico di quelle eterne leggi cui i raggi luminosi
obbediscono».
«[…] le strutture di ricopiatura del
mondo, che caratterizzano il nostro sistema nervoso centrale sono in un rapporto di analogia nei confronti della
natura del ricopiato […]»
* Così canta il cantautore italiano Fabrizio DeAndrè nella
sua canzone Via del campo.
2* Per l’uomo,
che ha qualcosa in più e non qualcosa
di diverso rispetto agli animali, poco
cambia se non che può trarre, dal fare ciò, un’allegria appena superiore alla pura gratificazione sensoriale degli animali. Un’allegria cioè etica, comunemente detta felicità. Ma nella sua Storia l’uomo ha
sempre riflettuto sulla felicità
partendo dal punto di arrivo della sua natura (Dio) e non dal punto di partenza
della sua natura (gli animali). Per questo oggi (da due secoli a questa parte)
tutto lo scibile, scientifico e religioso, sta e deve essere rivalutato.
3* «Avete
percorso il cammino dal verme all' uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In
passato foste scimmie, e ancor oggi l' uomo é più scimmia di qualsiasi scimmia».
FW Nietzsche , 'Così parlò Zaratustra'.
Il metabolismo dell’organismo “immagine” di quello cellulare.
Addentriamoci quindi nella compenetrante relazione tra
metabolismo delle cellule e metabolismo dell’organismo.
La cellula per vivere, alimenta il proprio metabolismo con
glucidi (zuccheri), protidi (proteine), lipidi (grassi), minerali e vitamine,
acqua e ossigeno. Essi costituiscono la cellula. La cellula fa
richiedere all’organismo che costituisce, inevitabilmente glucidi, protidi,
lipidi, minerali e vitamine, acqua e ossigeno. L’animale infatti non sa cosa
essi siano in sé, ma sa di poter sussistere per riprodursi solo se si nutre di
certe “cose”. Queste “cose” (gli alimenti) inevitabilmente contengono ciò che è
richiesto dalla cellula. Questo quindi è un dato di fatto osservabile: se mai
un organismo superiore ha desiderato nell’evoluzione specificamente un certo
nutrimento, è perché le cellule che lo costituiscono nello specifico lo
richiedono. Si può di nuovo osservare quindi
che la coscienza di un organismo
superiore è propriamente un livello
superiore di una coscienza “della natura” che impregna tutto ciò che ha
desiderio, volontà, motivazione a riprodursi.
La cellula “sa” di necessitare per vivere di specifiche
molecole organiche e inorganiche, mentre l’animale sa (qui non occorrono
virgolette) che necessita per vivere di carne, vegetali e frutti. Ma il
processo metabolico è il medesimo.
Proseguo dopo aver sottolineato che nel metabolismo è
l’origine di ogni malattia (*). Gli alimenti, a questi due diversi
livelli, non contengono solo parti nutritive per la cellula o l’organismo, ma
anche altre che alla cellula o all’organismo non servono. Non solo, contengono
anche parti che possono impedire la loro vita come abbiamo già descritto:
direttamente inceppando i meccanismi, indirettamente ostacolando le motivazioni
di tali meccanismi. Non solo, ma i residui stessi del metabolismo di tali
alimenti danno questi impedimenti. Queste parti quindi sono quelle
precedentemente definite tossiche. Parti
cioè che destabilizzano, con cui il processo metabolico non è in equilibrio per
le sue finalità. Parti che il processo metabolico non ha tempo e spazio a
disposizione per aggiustarle in un nuovo equilibrio (**). Tutte queste
caratteristiche mettono in luce quanto carico di finalità è il processo metabolico, dall’inizio alla fine.
Animali e vegetali differenziano il metabolismo non per sussistere ma per riprodursi. Entrambi per sussistere
si autocostituiscono dando mattoni al proprio cantiere metabolico per costruire
le proprie parti. Per riprodursi
invece la pianta deve fissare energia, l’animale sprigionare energia. Infatti
piante e animali sono “nuovi ambienti” formatisi per equilibrare luce,
ossigeno, carbonio e idrogeno. Il metabolismo vegetale fissa l’energia (fotoni)
in materia (carbonio organico), il metabolismo animale scinde la materia (carbonio
organico) in energia.
Ma se la pianta fissa fotoni, l’animale forse sprigiona
fotoni?
L’animale, abbiamo detto sopra, si differenzia dalla pianta
perché è in “movimento”. Per movimentare le sue fibre muscolari lisce e striate
“brucia” (ossida) combustibili organici (altamente ridotti, per eccellenza il
glucosio). La singola cellula in questo processo metabolico esoergonico, e
nell’insieme tutte le cellule muscolari con la loro funzione meccanica,
disperdono calore, cioè energia termica. Inoltre tutta questa energia meccanica
a monte deve essere azionata da un’energia elettrica, che origina dal
metabolismo cellulare nervoso. L’energia elettrica prodotta non serve solo per
azionare muscoli, ma anche per coordinare tutti i tessuti, e controllare i loro
stessi metabolismi. Quindi, dall’insieme di queste fonti elettriche, per leggi
note ormai da duecento anni, l’organismo emana un campo elettromagnetico.
L’animale per riprodursi con il proprio metabolismo libera
energia meccanica, energia termica, energia elettromagnetica.
Queste all’uomo risultano forme di energia. Ma lo sono perché noi percepiamo da un punto di
osservazione relativo, con precisi spazi e tempi di riferimento. Ma l’energia
sappiamo che è una sola in natura, e senza averla mai vista. La sola e banale
osservazione empirica che “il diretto e unico effetto di un alimento (materia) ingerito da un animale causa movimento (energia)” dovrebbe
bastare a dimostrare che il metabolismo animale attua la famosa equazione E=mc2.
Ora non ci soffermeremo all’energia meccanica: essa è una
grossolana forma di energia, perché per manifestarsi ai nostri sensi come forma
ha bisogno di occupare in toto spazi
e tempi (il movimento). Non ci fermeremo neppure a quella termica, che confonde
palesemente la nostra percezione di caldo-freddo con la caratteristica
intrinseca del calore (oggettivamente sempre uno stato di movimento
particellare, che però sfugge agli spazi e tempi dei nostri sensi).
Guarderemo oltre, guarderemo proprio al nostro campo
elettromagnetico. Guarderemo ai fotoni. Qui si arriva proprio alla fine dei
nostri schemi mentali, e spazi e tempi sono difficili da misurare. Proprio qui
c’è talvolta l’inizio della nostra arroganza intellettuale, che non vuole
riconoscere scientifico ciò che
risulta relativo fuoriuscendo da spazi e tempi grossolani. Manifesto
dell’omeopatia è :«Non esiste la
Malattia ma l’ammalato, non esiste l’Omeopatia ma
l’omeopata». L’omeopatia è a tutti gli effetti una medicina scientificamente
relativa. Osserviamo come.
* Anche una malattia da alterazione genetica, con
acquisizione (gain-of-function) o perdita (lost-of-function) di informazione,
ha per forza di cose un agente causale che la effettua. Tale
agente causale risulta casuale fino a quando non si conosce la
causa della causa.
** Le modificazioni strutturali del cibo apportate
dalle moderne tecnologie di produzione e trasformazione degli alimenti sono, in
base a questo medesimo principio, principale causa delle sempre più diffuse
intolleranze e allergie alimentari.
L’energia della digestione. L’energia nell’omeopatia. Il “simile” in tutto
ciò.
Siamo arrivati al nucleo della trattazione. Prendiamo in
esame dunque l’energia elettromagnetica sprigionata dal sistema nervoso
animale. Detta energia è il prodotto fisico
dell’attività nervosa vegetativa e psichica dell’animale.
Abbiamo visto che le piante altro non sono che organismi in
grado di compattare i fotoni della luce in legami materiali. Gli organismi
animali invece fanno il contrario: scindono la materia in energia. Ma, negli animali,
prima che dal cibo si arrivi al glucosio che trasmette indirettamente energia
all’ATP, e da questa al lavoro elettrico e meccanico, ce n’è di strada!
L’animale ingerisce materia “pura”: il cibo. Lo sottopone a
una masticazione che è una triturazione a volte molto notevole come nei
Primati, per la quale la materia da solida diviene poltigliosa. Dopo la
deglutizione tale poltiglia è ancora fisicamente sottoposta all’azione
meccanica dello stomaco, simile a una “centrifuga”, e dell’intestino che “setaccia”
per ore tutto l’ingerito facendolo venire tutto a contato con la sua superficie
assorbente. Contemporaneamente vi è un’azione chimica, perché questi organi
secernono tutta una sequela di sostanze diluenti, destrutturanti e captanti per
facilitare questa pura e semplice demolizione della materia “cibo”. Ovviamente,
la fase finale di questa macroscopica destrutturazione, è un residuo materiale
da cui l’animale non può più trarre alcuna delle forme di energia viste sopra.
Fermiamoci e osserviamo cosa succede macroscopicamente fin
qui. Anche senza alcuna preparazione culturale, si nota l’ovvia
consequenzialità di causa-effetto: da materia (il cibo) l’animale ricava
energia (quella vitale*).
Evidentemente è una pratica magica vista così, senza alcuna preparazione
culturale.
Ebbene, la farmacoprassia omeopatica, vista così, senza alcuna
preparazione culturale, è una pratica magica come lo è tutto il processo
digestivo animale: il farmaco, sostanza materiale, è sottoposta alla stessa
destrutturazione attraverso atti fisici (triturazioni e succussioni) e chimici
(diluizioni in veicoli con attività diluente ed estraente2*).
L’animale non ha mai letto un libro di biochimica, ma mangia ciò che lo fa
muovere, non altro, e se ciò che mangia e non altro lo fa muovere, è perché gli
è inevitabilmente energicamente simile.
Con un po’ di preparazione culturale invece, consentita da
mezzi di osservazione che vanno oltre i nostri occhi, si può indagare su questa
magia. Si constata allora che tutta la digestione è in realtà la fase
preparatoria di una “propriamente detta” destrutturazione della materia in
energia, dentro la
cellula. Alla stregua di tutte le antiche città che sorgevano
in prossimità dei fiumi o vicino alle coste del mare, perché da essi traevano
nutrimento ed attraverso di essi comunicavano, così, ovviamente3*,
gli agglomerati cellulari hanno creato un sistema “fluviale”, il circolo
sanguigno, per assurgere nutrimento e comunicare (azioni chiaramente
interdipendenti). Ad ogni cellula deve arrivare “cibo” per il proprio
metabolismo.
Metabolismo aerobico o anaerobico, poco cambia. L’ossigeno,
con cui abbiamo visto bisognava equilibrarsi, ha permesso semplicemente di
sviluppare un sistema (noto come ciclo di Krebs) più efficiente della sola
glicolisi anaerobica nel convertire energia. Di nuovo, sottolineiamo che detto
ciclo è integrazione della glicolisi anaerobica, non sostituzione. Poco cambia
perché, in aerobiosi o in anaerobiosi, alla fine viene ossidato un substrato
organico (una molecola altamente ridotta) e da tale ossidazione viene liberato
un potenziale ossido-riducente. L’energia liberata da tale potenziale permette
all’adenosin-difosfato (ADP, molecola organica che lega due atomi di fosforo)
di legare un terzo atomo di fosforo divenendo adenosin-trifosfato (ATP,
molecola che lega tre atomi di fosforo). Nell’ATP quindi l’energia
immagazzinata in questo terzo legame con il fosforo è facilmente erogabile per
altre reazioni vitali. Tutto il metabolismo cellulare di tutte le cellule del
nostro corpo ruota attorno alla comparsa-scomparsa di questo terzo legame
instaurabile con il fosforo. Forse non c’è poi da stupirsi più di tanto se Phosphorus preparato omeopaticamente ha
effetto su una enorme varietà di sintomi (squilibri energetici).
I principi nutritivi, dalla mucosa intestinale in poi, sono
quindi alla portata del metabolismo di quasi tutte le cellule dell’organismo.
Quasi tutte, perché il sistema nervoso è molto selettivo nella scelta dei
principi nutritivi, mettendo a punto una specie di seconda mucosa intestinale
che deve assorbire il necessario e fare da barriera al superfluo, o al
“tossico”: la barriera ematoencefalica. Inoltre, tutto il sangue che viene
dall’intestino deve essere “timbrato” dal lasciapassare del fegato, vero e
proprio cantiere metabolico, dove, tra le tante vitali funzioni, vi è quella di
immettere nel sangue sempre la minima quantità necessaria al tessuto nervoso centrale
di glucosio o corpi chetonici, unici “carburanti” da esso utilizzabili.
Tutto ciò significa che per dare origine ad un campo
elettromagnetico il sistema nervoso richiede ulteriori importanti elaborazioni
del cibo digerito. Elaborazioni che esistono e sono evidenti, e che conosciamo
impropriamente con la fisica newtoniana e non quantistica. Non scordiamo che un
legame chimico è semplicemente energia che si materializza, e ogni loro
elaborazione significa raffinare l’energia in essi contenuti.
Ecco dunque che per produrre quel campo elettromagnetico c’è
bisogno di combustibile molto raffinato. Se considerassimo un parallelismo con
petrolio e derivati: il petrolio grezzo difficilmente si infiamma, il diesel è ancora
troppo grossolano, la benzina si presta meglio e l’alcool ancora di più. Eppure
si parte sempre da petrolio, e quel che fa la differenza è l’elaborazione. Così
in omeopatia, si parte dalla stessa materia grezza, ma più si avanza con
potentizzazioni (diluizioni e dinamizzazioni), più viene raffinata in legami
facilmente energizzabili.
Si fa fatica ad accettare questo parallelismo perchè siamo
al limite di quella dimensione dove noi possiamo distinguere il legame, cioè la
materializzazione dell’energia.
In omeopatia, ipoteticamente, indaghiamo in un punto
dimensionale lontano dai legami chimici dei derivati del petrolio (che possiamo
raffigurare cartesianamente) e vicino ai legami chimici che legano i quark in
un protone (che non possiamo raffigurarci, ma potremo quantisticamente
analizzare).
L’ultima considerazione prima di trarre qualche conclusione.
Osserviamo la dinamica spazio-temporale (cioè il moto) di tutto il fenomeno metabolico, dall’inizio (assunzione
dell’alimento) alla fine (disposizione di energia
vitale4*). Quindi:
1) la ricerca e la selezione del
cibo
2) la sua assunzione e la sua digestione
3) la metabolizzazione
4) l’azione psico-motoria
Un animale in natura impiega decine di ore per compiere la
fase 1). Impiega due o tre ore per la fase 2). Impiega minuti per la fase 3).
Impiega frazioni di secondo per la fase 4).
Tutto è in accelerazione. Simmetricamente, il processo
inverso nelle piante (dalla fissazione dei fotoni alla formazione dei frutti) è
in decelerazione.
Sono moti che non potevano che riflettere l’andamento che la
strutturazione della materia in energia e la destrutturazione dell’energia in
materia hanno nell’universo fisicamente esplorabile.
Quali conclusioni si possono trarre da queste osservazioni?
Peter Mitchell per primo ha formulato la teoria chemiosmotica della
fosforilazione ossidativa mitocondriale [27]. Questa teoria spiega come il
passaggio di elettroni e protoni, in direzioni opposte attraverso le membrane
mitocondriali, crei un potenziale elettrochimico da cui si libera l’energia
necessaria all’ATP-sintetasi per la fosforilazione di ADP in ATP. Questa teoria fu confermata da vari esperimenti,
e valse a Mitchell il premio Nobel per la chimica nel 1978 [27]. Secondo Boyer
invece tale energia serve per staccare l’ADP e l’ATP dall’enzima [27], e
l’energia che fa la differenza tra ADP e ATP rimarrebbe incognita.
Comunque sia, oggettivamente quell’energia c’è. Un’energia
molto piccola, rinchiusa e liberata in quel legame molto “malleabile”. Ma se si
pensa al flusso energetico “reale”
mediato da questi legami, in tutto il metabolismo cellulare, di tutte le nostre
cellule, in ogni singolo “loro” istante esistenziale… allora l’immagine che
scaturisce è di un’energia in ballo non proprio piccola, e forse non così
semplicisticamente rappresentabile da una “lineetta” che indica “un legame in
più”.
Il punto è che tutto questo flusso energetico noi non
abbiamo i recettori per percepirlo, ma possiamo osservarlo. Possiamo osservare
questo flusso, con cognizione di causa-effetto, in ciò che conduce un banale
alimento a divenire ogni nostro banale movimento o pensiero. Possiamo osservare
ciò e comprendere che siamo noi stessi in toto recettore, in toto trasduttori e
in toto mezzo di emanazione di questo flusso. Siamo in toto “recettori” di
specifico materiale da ingerire a cui siamo affini, il cibo; ne “trasduciamo” i
legami materia-energia attraverso la lunga e accelerata diluizione e dinamizzazione
attraverso il metabolismo macro- e microscopico; ne emaniamo l’informazione (la nostra azione) attraverso
la nostra forma (il nostro essere costituito
di cibo nello spazio e nel tempo).
Vale la pena sottolineare che costituzione (forma) e azione (informazione)
sono univoci come la materia e l’energia: ad esempio, il linguaggio umano è
“materializzato” nell’encefalo, l’encefalo si “energizza” nel linguaggio (onde
elaborate, ora sonore ora elettromagnetiche).
Solo a questo punto della trattazione, chi muove obiezioni
sulle incertezze dell’omeopatia, vedrà obiettate invece le proprie certezze.
Perché il dato di fatto logico e matematico di tutta la realtà osservabile, e
di cui siamo parte, è proprio questo flusso energetico-materiale che si
struttura e destruttura. Tutta la disputa tra ciò che è scientifico e non
scientifico invece è ancora troppo fondata su analisi troppo superficiali,
ferme alle definizioni di organico e inorganico, di pura materia e pura
energia.
Non si comprende come mai è scientifica l’energia che passa
dall’ADP all’ATP, che nessuno ha mai vista ma se ne vede l’effetto, mentre non
è scientifica l’energia che passa da una qualsiasi molecola di un farmaco ad
un’altra qualsiasi molecola di un veicolo farmacologico, che al pari nessuno ha
mai vista ma se ne vede l’effetto.
Non si comprende come una sostanza possa esprimere
un’informazione “chimica” ad una dimensione e non possa esprimere
un’informazione “energetica” ad un'altra dimensione, quando abbiamo
obiettivamente constato che materia ed energia sono univoche in ogni
dimensione, ciò che passa è l’informazione
di una forma, e dire “chimico” o
“energetico” è relativo a un punto di osservazione.
Non si capisce cioè come il farmaco possa avere un quadro di
effetti terapeutici o tossici che manifesta in seno a quella dimensione della
sua struttura energetico-materiale (quella chimica), mentre quella medesima
sostanza non possa avere un quadro di effetti terapeutici o tossici ad una
dimensione dove assume altra struttura energetico-materiale, solo perché per noi
non è più raffigurabile.
Sopra tutto, non si comprende come mai la natura, che per
fendere l’onda ha creato la pinna che le è simile,
che per dominare la luce del sole ha creato l’iride che gli è simile, ebbene per fendere e dominare
gli squilibri della salute (“l’energia vitale”) abbia creato qualsiasi cosa, o
anche nulla, purchè non sia il simile
di quello squilibrio.
Il legame tra la logica dei concetti introduttivi
sull’evoluzione e la logica del principio di similitudine omeopatico, ci pone
davanti alla meraviglia della natura, che è il suo divenire. Metaforicamente, il
divenire dell’evoluzione della natura è costituito alla radice da uno squilibrio, e all’apice, a far da frutto, da un equilibrio. L’equilibrio,
il frutto, sussiste inevitabilmente sull’immagine dello squilibrio, la radice. Tale
equilibrio è temporaneo, perché il divenire si sviluppa nel terreno dello
spazio-tempo, e qui cadendo il frutto si “rompe”, si squilibra, perché viene a
contatto con altre forme, altri frutti di quell’estensione spazio-temporale. Il
risultato è l’origine di una nuova
radice, sommatoria del frutto e del terreno. Il frutto della nuova radice sarà un frutto nuovo, simile al precedente, ma non
uguale, perché integra il vecchio equilibrio nel terreno della nuova
dimensione.
Così, non è incerto che una sostanza in due dimensioni
diverse, ma vicine, portino informazioni energetico-materiali che sono immagine
l’una dell’altra, proprio perché su tale immagine sussiste l’evolvere della
loro struttura. Anzi, potremmo ritenere che sono gli effetti della sostanza
farmacologia ponderale l’ “immagine” di quelli indotti dalla sua preparazione
omeopatica, proprio perché più strutturati. E infatti gli effetti della
sostanza ponderale sono sempre più netti e numericamente inferiori agli effetti
del corrispettivo omeopatico.
L’incertezza quindi non deve ruotare intorno al fatto che
l’omeopatia funzioni o meno. Non è incerto questo. Che funzioni è osservabile,
logico e matematico. L’incertezza invece che c’è e ci sarà sempre ed è enorme,
è quella che ruota intorno alla capacità dell’omeopata di farla funzionare.
*tipica accezione omeopatica che in questo contesto
non troverà connotati magici ma puramente biologici.
2* delle proprietà di alcool e acqua
deionizzata, così come delle molecole attive nella digestione, non sappiamo che
vagamente una minima parte.
3* È ovvio perché lo si legge con la banale
osservazione. Ed è ovvio dopo tutta la nostra disamina semplicemente perché in
natura quello descritto è l’equilibrio migliore dell’uno materia-energia
strutturatosi a livello di queste due dimensioni osservate (tra loro e a noi
così “vicine”).
4* l’energia vitale non è quella che oscilla
tra ADP e ATP, che ne è una tappa. L’energia
vitale è l’effetto totale dell’assunzione
di alimento: tale effetto è l’energia dell’azione fisica, che comprende quella
cerebrale e quella dell’omeostasi basale (conservata anche durante il sonno e
che differenzia il sonno dalla morte).
3.3 Il principio di
similitudine omeopatico:
un’interpretazione
quantistica
Si è detto poco fa che la sola e banale osservazione
empirica di causa-effetto tra ingestione di alimento (materia) e produzione di
movimento (energia) dovrebbe bastare a dimostrare che il metabolismo animale
attua la famosa equazione E=mc2.
Ma il cibo non corre lungo le anse
intestinali alla velocità che la luce ha nel vuoto!
Qui non ci sono competenze per una disamina di fisica
quantistica. Mi soffermo solo su alcuni concetti fisici per interpretarli alla
luce dei fenomeni biologici.
L'equazione illustra
come l'energia massima ottenibile da un oggetto è equivalente alla massa
dell'oggetto moltiplicata per il quadrato della velocità della luce [29].
E=mc² si applica a
tutti gli oggetti materiali, dando per assunto che la massa sia una derivazione
dell'energia o viceversa, e che sia possibile convertire dall'una all'altra. La
sua applicabilità agli oggetti in movimento dipende dalla definizione di massa
usata nell'equazione [29].
Nella fisica moderna,
però, la massa è assoluta e l'energia è relativa. Perciò, tecnicamente, la
massa non è energia, e l'energia non è massa. La formula in questione
rappresenta la conversione possibile tra massa ed energia, quando l’oggetto
osservato non è in moto. Infatti un corpo a riposo ha ancora dell'energia sotto
forma di massa, al contrario di quanto proposto dal sistema newtoniano secondo il quale un corpo libero fermo non ha energia. Per questa ragione la
quantità mc2 è a volte chiamata energia a riposo del corpo.
L’energia E della formula può essere vista come l'energia totale del corpo, che
è proporzionale alla sua massa solo se il corpo è a riposo [29].
Di solito questa
formula si applica ad un oggetto che non si muove secondo ciò che è possibile
osservare rispetto ad un dato sistema di riferimento. Ma lo stesso oggetto
potrebbe essere in moto per un osservatore solidale ad un altro sistema di
riferimento. In questo caso, per quest'ultimo osservatore, l'equazione non è
applicabile [29].
Nelle premesse fatte al paragrafo 1.1 e 1.2 invece noi
abbiamo constatato che materia ed energia coincidono in virtù di un moto,
intrinseco all’unità materia-energia, e che ha come estremi, per noi
osservatori, il fotone e la materia inerte. Ora, se numericamente c equivale alla velocità della luce nel
vuoto, m è la massa inerte, E è l’energia, le domande che sorgono sono queste:
energia in quale forma? Energia pura? Qual è l’energia pura? E la massa inerte
di un kg d’acqua ha forse la stessa energia
a riposo della massa inerte di un kg di quell’acqua ghiacciata?
Le asserzioni suddette: «la massa è assoluta e l'energia è relativa. La massa non è energia, e
l'energia non è massa. La massa è una derivazione dell'energia e viceversa, ed
è possibile convertire dall'una all'altra» dimostrano contraddizioni
concettuali (astratte, non reali) evitabili vedendo materia ed energia come esattamente
la medesima entità relativa ad una
loro estensione spazio-temporale che è oggettiva.
Come dire che è soggettivo il colore verde ma oggettiva la lunghezza d’onda di
tale colore. Come dire che è soggettiva la nota sonora LA ma oggettiva la sua
frequenza sonora di 440 Hz. Ossia, ripetendo le premesse del primo capitolo, è
oggettivo il numero e relativa la misura della realtà quali-quantitativa di un
oggetto.
Ritornando quindi alla realtà osservabile, il fotone è un
quantum energetico-materiale “limite” che possiamo indagare. Si libera da un
atomo quando un elettrone passa da un orbitale energetico superiore a uno
inferiore. Sono inevitabilmente fotoni allora che fanno la differenza tra ADP e
ATP nel legame con il fosforo, e ciò che rende vitale biologicamente la cellula
non è la presenza di molecole fosforo, ADP, ATP, ma il flusso di energia che
prende forma in quei legami. La vita è ciò che muove e si muove, è energia, e
la materia è semplicemente la forma attraverso cui essa si rappresenta in una
dimensione, noi compresi. Sono la stessa entità primordiale (materia-energia)
in continuità di flusso, di movimento; flusso per noi “relativo” (come forma materiale o energetica) ma
costituito di uno spazio-tempo per noi “oggettivo” (raffigurabile in un numero).
Se le cellule vegetali fissano i fotoni, per forza di cose
le cellule animali liberano fotoni. Non abbiamo i recettori per captarli dalle
nostre cellule, ma inevitabilmente in esse liberiamo fotoni. Facciamo luce. Luce
convertita in altre reazioni che portano all’emanazione anche di un campo
elettromagnetico, quello sì, identificabile e identificato.
Anche queste immagini risultano cariche di toni religiosi
non indifferenti. Ma la cosa romanticamente evidente è che materialmente la Terra è materia inorganica
del Sole, e la vita biologica prende forma dall’incontro di questa con la
medesima diretta energia del Sole. La materia organica appare quindi la
strutturazione di un equilibrio tra materia “pura” ed energia “pura” (“pura”
relativamente al punto di osservazione dell’osservatore organico, cioè l’uomo).
Se a questo punto la materia e l’energia sono relativi a un
flusso di movimento assoluto intrinseco allo spazio-tempo, allora non sarà così
tanto assurdo aspettarsi che due identiche soluzioni idroalcoliche di una
qualche sostanza chimica, non siano più identiche dal punto di vista
materiale-energetico se una è sottoposta a centinaia di succussioni.
Infatti, tenuto conto che secondo la legge di Einstein la materia
viaggiando alla velocità della luce nel vuoto diverrebbe essa stessa energia
elettromagnetica; tenuto conto che tale velocità della luce non nel vuoto ma
nella soluzione è inferiore; tenuto conto di quale velocità relativa possano
raggiungere le particelle ultrastrutturali del soluto attraverso il solvente
durante la succussione, allora è pur presumibile che ad un qualsivoglia livello
spazio-temporale di quella soluzione il movimento impresso con la succussione
de-strutturi e ri-strutturi le forme materia-energia.
E se ogni forma
porta in sé, come indica pure l’etimologia stessa, una “in”formazione specifica, vorrà pur dire che le due soluzioni
avranno effetti diversi sugli “ambienti” con cui verranno a contatto e
tenteranno di riequilibrarsi. Tutto questo non è “presumibile e da dimostrare”.
Purtroppo, tutto questo è stato prima dimostrato ed è poi divenuto presumibile.
Dimostrato da Hahnemann in poi, presumibile da Einstein in poi.
4. Conclusioni
Nuove sintesi e la
Medicina Integrata.
Parlando di malattia e organismo sano nel capitolo 3.1,
avevamo concluso che la terapia omeopatica si propone di “guidare
l’invecchiamento” secondo l’equilibrio naturale, nel senso che, se ben usata,
fa sì che gli squilibri naturali non prendano la strada di squilibri
innaturali, sfociando negli eccessi. Abbiamo detto che da questa affermazione
in poi il problema è enorme, perchè si entra nel campo di definizioni relative,
in quanto sono relative le considerazioni sull’ “eccesso”. Tale accezione
solleva molte difficoltà concettuali, perché entrano in ballo parole come
“male”, “dolore”, “bene”, “salute”. Ed è proprio il diverso peso in senso etico
rispetto a quello naturale che questi concetti assumono nella vita umana, il
motivo di tanta difficoltà nella loro argomentazione.
Tentiamo tuttavia solamente di inserire questi termini in
posizioni coerenti al quadro di leggi naturali, biologiche ed omeopatiche, fin
qui analizzate.
La prima enorme conseguenza delle nostre riflessioni in
questo capitolo cade sul significato della genetica, e in particolare della
malattia genetica. Nel paragrafo 3.2 ho azzardato una affermazione
provocatoria: nel metabolismo vi è l’origine di ogni malattia. In realtà è
un’asserzione banale, perché se il metabolismo è il processo biologico di
conversione fisica dell’energia in materia e viceversa, allora è ovvio che ogni
malattia sia espressione di un suo inceppamento. Tutto si complica poiché il
metabolismo biologico in natura non è a se stante, ma inserito in un
metabolismo non biologico (conversione energia-materia) come abbiamo
precedentemente descritto, dove la materia e l’energia fluttuanti sono
oggettivamente le stesse. E inoltre tutto si complica perchè, come visto
parlando di dosi tossiche, gli inceppamenti hanno livelli di “criticità”
(fisiologica-patologica) per l’esistenza di uno o più ambienti. Anche qui la
discussione sarebbe ampia e multidisciplinare. Soffermiamoci allora sul DNA.
Oggi ogni caratteristica fenotipica è fatta risalire al DNA,
persino se “si vota a destra o sinistra”: il settimanale britannico 'New
Scientist' ha dedicato un'ampia inchiesta su tale questione oggetto di studio
da parte di scienziati di mezzo mondo, studi che sembrano propendere sempre più
per la teoria 'genetica' dell'ideologia: “essere di destra o di sinistra non
dipenderebbe dalla nostra volontà o dall'educazione ricevuta ma dal corredo
genetico di ogni individuo. Progressisti o conservatori si nasce, quindi, e non
si diventa” [30].
Si è partiti con il colore degli occhi e la statura, si è passati
per l’obesità, e si arrivati a dire che è genetica pure l’ideologia.
Alla luce di ciò, come sarà riscritta dalla scienza la legge
scolastica: fenotipo=genotipo+ambiente?
Da quanto abbiamo esaminato, ci sta bene che tutto sia
ricondotto alla genetica (è inevitabile che ciò stia accadendo), purché il
passo successivo sia ricordarsi che il genotipo è, e non può essere altro,
l’ambiente stesso. Per il vero, l’immagine di un ambiente, secondo leggi
naturali.
Banale infatti è osservare che occhi e pelle chiari o scuri
sono naturalmente d’elite in specifici ambienti e non
altri. Banale è osservare che dove vi è cibo in abbondanza vi è statura alta e
sovrappeso e non il contrario (*). Perché avere un’ideologia di eccessivo
spreco o di ossessivo risparmio non è questione di “destra o sinistra” ma
probabilmente di disposizione di risorse in un territorio proporzionata a chi
ci deve vivere.
In realtà, se i geni sono tanto importante, è perché
detengono una funzione sostanziale: la memoria dell’informazione. Il DNA,
abbiamo visto, non ha alcuna attività in sé, se non essere fedele depositario
di informazioni necessarie per la vita dei veri attori cellulari.
L’informazione è il fondamento di tutto il flusso energetico materiale in
natura. Perciò l’azione del DNA è fondamentale, anche se più che fisica è metafisica.
Un po’ come il linguaggio umano.
Un libro come un’intera biblioteca sono indispensabili per
l’evoluzione di chi scrive e legge. Ma non saranno mai il libro o le librerie
ad evolvere in sé, se non tramite e per chi li scrive e chi li legge.
Secondo un recente filone delle medicine “alternative”
alquanto delicato e discutibile per tante vicissitudini storiche e sociali (la Nuova medicina germanica**), ogni malattia origina da uno shock che coinvolge uno dei
livelli psiche-cervello-organo. Questi tre livelli comunicano tra loro per
reagire allo shock [25]. La malattia è anzi essa stessa, con i suoi sintomi,
già atto di guarigione [25]. Tra i punti di vista della Nuova medicina, due sono sicuramente fondamentali per la medicina
moderna: il superamento dell’accezione giudaico-cristiana di “bene-male”
riversata in “malattia-salute”; il dolore inteso come una strategia che la
natura ha messo a punto per costringere a riposo l’animale, e riparare il danno
provocato dal trauma. Dolore che va monitorato ma “rispettato” [25]. Si può ben
intuire quali porte spalanchino dal punto di vista etico simili accezioni. Ci
sono interpretazioni biologiche della malattia di estremo interesse in questa
dottrina. Altri invece sicuramente fin troppo stravaganti e degni di attente
critiche. Ma se, come è da sempre risaputo, dopo Immanuel Kant non è più
possibile fare filosofia senza Immanuel Kant, mi verrebbe da concludere a
riguardo che dopo Hamer non è più possibile fare scientificamente medicina
senza Hamer.
Alla luce di quanto trattato, ogni malattia (compresa quella
mentale) è un trauma che coinvolge il DNA. Un trauma che squilibra spazi e
tempi. Un trauma che fa fuoriuscire un equilibrio dai margini di normalità cui
è sensibile la coscienza di quel livello di equilibrio. Inevitabilmente
coinvolge il DNA, perché lì deve essere scritta la memoria di quel trauma ambientale, lì va depositata o modificata l’informazione per l’evoluzione di un
equilibrio tra ambienti.
Dopotutto l’intero processo infiammatorio verso virus e
batteri, scevri da ruoli “buoni contro cattivi”, è mirato proprio a processarne
gli acidi nucleici (RNA o DNA). È ben risaputo ormai che il DNA o RNA dei
microrganismi talvolta si integra in porzioni tal quali nel DNA della cellula
eucariote ospite. Forse questo processo è continuo e subdolo durante
l’esistenza, e diventa “stato influenzale”, malattia, quando appunto si
oltrepassano gli spazi e i tempi della normale, equilibrata, individuale
interazione tra ospite-parassita.
Si sa che nella pratica clinica gli anti-infiammatori sono
usati in modo sommario. Ma dobbiamo essere coscienti che usarli sommariamente
significa scardinare una grossa percentuale dei processi di guarigione messi a
punto in milioni di anni dall’equilibrio delle parti interessate. E alterare la
guarigione è essa stessa malattia. Questo è uno degli “eccessi” non naturali a
cui siamo propensi, e questo è l’eccesso per eccellenza, come abbiamo visto,
contro cui si scagliava Hahnemman in tutta la sua dottrina e in tutta la sua
pratica.
Si sa allo stesso modo che il senso comune attribuisce alla
parola “infiammazione” i connotati patogenetici riferibili invece alla parola
“infezione”. È nostra responsabilità risolvere questa commistione concettuale
di infiammazione e infezione tramite l’altra parola simile qui molto usata: la
corretta cioè informazione.
Oggetto di osservazione per tutto ciò che è stato
concettualmente qui elaborato, è stata l’unità dei fenomeni naturali, biologici
e non. Possiamo sinteticamente concludere ora che tale unità è l’informazione stessa, che sempre in modo
unitario prende forma come materia e agisce come energia. Ebbene in campo
medico ufficiale, la
Psico-neuro-endocrino-immunologia (PNEI) [7] è quella
disciplina che ha come oggetto di studio la comunicazione tra sistemi di organi.
Constatare che l’informazione tra
sistema emotivo, nervoso, endocrino e immunologico viaggia in modo
bidirezionale sotto varie forme nel corpo umano, è stato l’evento
rivoluzionario alla fine del secolo scorso che portò alla definizione di PNEI,
e in seguito di Medicina integrata.
La
Medicina Integrata è un orizzonte terapeutico nato negli anni
90 che prevede una scientifica integrazione delle discipline terapeutiche
convenzionali e non convenzionali. Perché ciò sia scientifico appunto, essa
prende come modello teorico lo studio della PNEI. In questo modo, tali
discipline gradualmente potranno liberarsi delle infondatezze che le hanno
pregiudicate storicamente. Chiarendone con metodo oggettivo l’efficacia e
perseguendone un aumento di efficienza, esse potranno guadagnare credibilità.
Per quanto riguarda l’Omeopatia, secondo Francesco Bottaccioli,
fondatore e presidente della prima società italiana di
Psico-neuro-endocrino-immunologia [7], essa ha credenziali che potranno essere
accolte scientificamente solo a costo di «ripensare il proprio rapporto con la
scienza e le proprie fonti teoriche». Mentre le basse diluizioni trovano
ragione di efficacia alla luce degli effetti “paradosso” ormai ben noti in
farmacologia, per cui talvolta una sostanza ha effetti opposti a dosi diverse,
rimane infatti «lo scoglio di una plausibile spiegazione di come possono
funzionare le alte diluizioni, quelle cioè che oltrepassano il numero di
Avogadro» [7].
Queste critiche mosse dalla Medicina Integrata sono
giustificate a mio avviso per la difficoltà a cogliere la differenza sostanziale tra alte “diluizioni” e alte “potenze”. Difficoltà
che rimarrà finchè non sarà indagato quantisticamente il processo di
succussione, e non tanto per la possibilità di una “memoria” del solvente, ma
per le interazioni tra soluto e solvente.
Un’altra critica riguarda la non curanza di Hahnemmann su “come”
la forza vitale possa reagire alla malattia. Non curanza che sta stretta alla
Medicina Integrata: «non credo sia accettabile, per scienziati e medici del
terzo millennio avere questo programma scientifico» afferma Botaccioli [7]. Tuttavia,
sempre secondo lo stesso Botaccioli, «è confermato da prove di efficacia […]
che determinate pratiche omeopatiche abbiano capacità di influenzare il network della PNEI». Perciò l’Omeopatia
non dovrebbe permettersi di perdere questa sfida agli occhi del futuro della
medicina moderna.
Ancora con le parole di Bottaccioli: «Il fisico,
l’immunologo, il neurobiologo, lo psichiatra, l’endocrinologo, l’internista:
sono le figure chiave della rivoluzione in corso nelle scienza biomediche. […]
Per proseguire la ricerca, bisogna sviluppare una grande disposizione al lavoro
interdisciplinare».
Con questo spirito, l’obiettivo di questa tesi medica era partire
da premesse fisiche e biologiche per stimolare nuove interpretazioni di un
fenomeno affascinante ed ostico, come quello alla base della terapia
omeopatica. Alla base, vi è un flusso di materia ed energia che si esplica nel metabolismo,
le cui leggi sono in minima parte comprensibili al metodo cartesiano, ma ancora
tutte da scoprire alla luce di metodiche quantistiche.
A tal riguardo, concludo citando un articolo comparso sul
portale scientifico dell’Ansa.
Roma, 29-09-2007, Con i fotoni la matematica diventa un opinione. «Due più due fa quattro e quattro meno due
fa due? Non sempre. Il detto che la matematica non è un'opinione non vale nella
meccanica quantistica, quando si aggiungono e sottraggono fotoni. Le leggi
delle microscopiche particelle di luce sono state verificate per la prima volta
grazie e giudicate alquante bizzarre da un gruppo di ricercatori dell'Istituto
nazionale di ottica applicata (Inoa) del Cnr di Firenze, del Laboratorio
europeo di spettroscopia non lineare (Lens), del Dipartimento di Fisica
dell'Università di Firenze e della Queen's University di Belfast. Lo studio è
stato pubblicato nell'ultimo numero della rivista 'Science' […]. "Abbiamo dimostrato per la prima volta
spiega Marco Bellini dell'Inoa-Cnr - come aggiungere e sottrarre in modo
assolutamente controllato singole particelle di luce, i fotoni, da un campo
luminoso simile a quello emesso dal sole o da una comune lampadina". I
fotoni obbediscono alle regole della meccanica quantistica, seguendo comportamenti
apparentemente bizzarri e illogici. "Abbiamo visto - continua -
come, se si aggiunge un fotone e subito dopo se ne estrae un altro il numero
finale di fotoni può diventare completamente diverso da quello iniziale. Anche
la semplice sottrazione di un fotone ha come risultato un aumento"
[…]. Da questi risultati gli scienziati sperano di poter trarre importanti
applicazioni» [31].
* In alcune popolazioni africane si rinviene un
fisico statuario laddove il nutrimento, pur attuato con pratiche primitive, è
di qualità eccelsa. È risaputo che i Masai si nutrivano prima della loro
civilizzazione con latte di ruminanti mescolato al sangue spillato da una vena
giugulare degli stessi. Integravano così di ferro il latte, alimento che
insieme all’uovo è il più completo in natura per la nutrizione umana, carente
appunto solo di ferro.
** L’attributo germanica
è in riferimento ai popoli nordici primitivi. Ideologicamente concepivano malattia
e salute come due fasi in continuità di un unico processo evolutivo, e non come
due entità contrapposte alla stregua di bene
e male, tipico della medicina occidentale
moderna e di derivazione giudaico-cristiana [25].
GLOSSARIO
Analogia
|
In
Biologia, relazione esistente tra organi di due categorie sistematiche diverse
i quali svolgono la stessa funzione ma differiscono per il fondamentale piano
organizzativo e le modalità di sviluppo, pur potendo somigliare per aspetto
esteriore. Vi è analogia ad esempio tra ali di Insetti e di Uccelli, tra la
pinna dorsale dei Pesci e dei Cetacei [8].
|
Allopatia
|
Terapia
che si propone di curare il sintomo con un medicinale che ne contrasta il
meccanismo di insorgenza.
|
Adroni
|
Particelle
soggette a forze di interazione forti. Comprendono i barioni (neutroni
e protoni), soggetti al principio di esclusione del Pauli, e i mesoni (pioni, kaoni e altri con numero
barionico zero), non soggetti a tale principio. Il principio di esclusione
del Pauli afferma che due particelle dello stesso tipo non possono occupare
esattamente lo stesso stato quantico [1].
|
Antiparticella
|
Particella
con pari massa e spin rispetto a una particella ma carica elettrica e numero
barionico o leptonico uguali e opposti. Ad ogni particella corrisponde
un’antiparticella, fatta eccezione per quelle neutre come il fotone o il
pione, che sono al tempo stesso particella e antiparticella. L’antimateria
consta di antiprotoni, antineutroni e antielettroni (o positoni) [1].
|
Curva gaussiana
(o curva normale)
|
Curva
teorica con una caratteristica forma a campana, completamente definita da due
parametri: media aritmetica (ascissa della frequenza media) e deviazione
standard (ascisse simmetriche dei due punti di flesso). Numerose variabili
biologiche si distribuiscono in modo approssimativamente gaussiano [8].
|
Dinamizzazione
|
In
Omeopatia, atto di energico scuotimento con contraccolpo eseguito cento volte
ad ogni diluizione durante la preparazione del rimedio.
|
Forza (o
energia) vitale
|
In
Omeopatia, ciò che distingue l’essere animato dall’essere inanimato. Energia
sprigionata da un metabolismo attivo.
|
Fotofosforilazione ciclica
|
Formazione
fotosintetica di ATP non accompagnata dalla sintesi di equivalenti riducenti
[8].
|
Fotofosforilazione non ciclica
|
Formazione
fotositnetica di ATP accompagnata dalla produzione di un equivalente
riducente, il NADPH, utilizzato nella riduzione dell’anidride carbonica
atmosferica nel ciclo di Calvin [8] (formazione di carbonio organico da
anidride carbonica).
|
Interazioni deboli
|
Una
delle quattro classi generali di interazioni fra le particelle elementari. A
pari energia, sono molto più deboli delle forze elettromagnetiche o delle
interazioni forti, ma molto più forti della forza gravitazionale. Sono
responsabili dei decadimenti lenti di particelle quali il neutrone e il muone
[1].
|
Interazioni forti
|
Sono
le più forti tra le quattro classi generali di interazione fra particelle
elementari. Sono responsabili della coesione fra protoni e neutroni nel
nucleo atomico. Ad essa sono soggetti gli adroni, ma non i leptoni e i
fotoni [1]
|
Leptoni
|
Particelle
che non partecipano alle interazioni forti. Comprendono elettroni, muoni e
neutrini [1].
|
Miasma cronico
|
In
Omeopatia, malattia cronica cui è soggetto un individuo durante
l’esacerbazione della psora primaria. Può manifestarsi dal punto di vista
organico con neoproduzione tessutale (Sicosi)
o perdita tessutale (Sifiide).
Anche la Psora
primaria è un miasma che può divenire da latente a patologicamente manifesta,
mostrando spinta degenerazione funzionale od organica, senza direzione
sicotica o sifilitica.
|
Omeopatia
|
Terapia
che si propone di curare un quadro sintomatologico con preparazioni
medicinali diluite e dinamizzate (rimedi omeopatici) il cui effetto, a dosi
ponderali, è un quadro di sintomi simili a quello da curare.
|
Omologia
|
In
Biologia, somiglianza strutturale tra due elementi anatomici basata sulla
comune derivazione ontogenetica. Tali strutture possono essere difformi e
svolgere funzioni diverse [8].
|
Onde gravitazionali
|
Onde
nel campo gravitazionale analoghe alle onde luminose nel campo
elettromagnetico. Viaggiano alla stessa velocità di quelle luminose (292.792
km/s). Il quanto della radiazione gravitazionale è chiamato gravitone [1].
|
Particelle fondamentali [10]
|
Secondo
quanto oggi è comunemente accettato (modello
standard) le particelle fondamentali (indivisibili e
puntiformi) che compongono tutta la materia esistente in natura sono: 6 tipi
(sapori) di leptoni,
6 tipi (sapori) di quark, e le loro rispettive antiparticelle,
ovvero 6 antileptoni e 6 antiquark. Queste due categorie hanno
caratteristiche molto diverse tra loro; in questa sommaria classificazione ci
limitiamo a dire che, al contrario dei leptoni, i quark non esistono
allo stato libero, ma si osservano sempre e solo legati in adroni (vedi
classificazione precedente). Sia i leptoni che i quark, che sono
tutti dei fermioni
(spin semi-intero)
con spin=1/2, si
suddividono in 3 generazioni (o famiglie) ciascuna composta di due particelle
con alcune caratteristiche comuni dal punto di vista delle interazioni fondamentali e dei numeri
quantici.
Leptoni
|
Leptoni carichi (Q=-1)
Neutrini (Q=0)
|
Prima generazione
|
Seconda generazione
|
Terza generazione
|
Quark
|
Quark di tipo up (Q=+2/3)
Quark di tipo down (Q=-1/3)
|
Prima generazione
up: u
down: d
|
Seconda generazione
charm: c
strange: s
|
Terza generazione
top: t
bottom: b
|
Mediatori
delle quattro forze fondamentali, appartengono alla categoria dei bosoni (spin intero) vettori
(spin=1)
Particelle
indivisibili e puntiformi secondo il modello standard. Sono sei tipi (sapori)
di leptoni e i rispettivi anti-leptoni, e sei tipi (sapori) di quark e i
relativi anti-quark.
|
Particelle
non elementari [10]
|
Nucleoni,
barioni costituenti della materia ordinaria, composti da 3 quark appartenenti
alla prima generazione
Iperoni,
tutte le altre combinazioni di 3 quark o 3 antiquark
Mesoni
q-antiq, composti da un quark e un antiquark
Mesoni
non q-antiq o esotici
|
Potenza omeopatica
|
Indica
il grado di diluizione e dinamizzazione di un preparato omeopatico. Le
diluizioni possono essere fatte in varie scale (decimali, centesimali,
korsakoviane, cinquantamillesimali) mentre le dinamizzazioni sono solitamente
cento ad ogni passaggio di diluizione.
|
Psora primaria
|
In
Omeopatia, stato patologico di base e latente cui è soggetta l’intera
esistenza di un individuo.
|
Rimedio
|
In
Omeopatia si definisce rimedio una sostanza farmacologicamente attiva che è
sottoposta a diluizioni e dinamizzazioni in progressione (cioè a una
preparazione omeopatica).
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