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USA-UE. Dazi sì dazi no: paradossi dell'economia della finanza

07 ottobre 2019

E' un bel dire che i prezzi aumentano a causa dei dazi e c'è una perdita dell'indotto dei settori interessati. Vediamo perché.

Il parmigiano e il grana sono formaggi a lunga stagionatura. Tra il momento della produzione e la vendita passano anche due anni. Significa che quello che è venduto oggi è stato prodotto in base a una previsione di vendita uno o due anni prima. Fino a ieri non c'era alcuna previsione di dazi su questi prodotti. Questo significa che se si vuole mantenere stabile la domanda con i prezzi aumentati a causa dei dazi, il valore del prodotto dovrà diminuire.

Ma per assurdo potrebbe essere che per fattori di marketing (alias prestigio dei brand) il valore del prodotto non si sarà disposti ad abbassarlo. Ciò significa che pur di non svenderla, una quantità di prodotto non sarà venduto, che significa categoricamente distrutto oppure, assurdo dell'assurdo, venduto come sottoprodotto all'industria della trasformazione (tipo finire in patatine "al gusto di" o crocchette per cani per intenderci).
Quindi in base alle perverse leggi del mercato dell'economia della finanza ci si può ritrovare prodotti di ottima qualità distrutti, convertiti in junk-food o dati in pasto ai cani.

Ma questa è solo una perversione a valle. Perché la vera perversione si rivela a monte, qualora si sceglie di diminuire il prezzo per smaltire tutta l'offerta. Questa rappresenterà ovviamente una perdita di introiti, ma per chi?
La filiera di un formaggio stagionato così come di un prosciutto è molto lunga. Parte dal settore primario agro-zootecnico (campagne e allevamenti) ed arriva al settore terziario dei servizi (marketing pubblicitario, amministrazione, trasporti) passando per quello secondario della trasformazione industriale (industria casearia, stoccaggio, imballaggio).
Consorzi di marchi con giri d'affari stratosferici ma con anelli deboli del settore primario e anelli forti del settore terziario e secondario, per cui tradizionalmente le perdite spesso non sono spalmate equamente su tutta la filiera.

Ora lo scopo non è addentrarsi su statuti e disciplinari per scovare ingiustizie socio-economiche, ma prendere consapevolezza che la perversione delle perversioni, il paradosso dei paradossi, è finalizzare la produzione di un prodotto di nicchia alla vendita su scala internazionale.
Si è voluto negli ultimi 50 anni, a partire dal boom economico post-bellico, far fronte alla domanda internazionale di prodotti agroalimentari di nicchia per ricavarne il massimo profitto. Significa che se da determinate risorse territoriali prima potevano emergere mille cosce di prosciutti o mille forme di formaggio, poi si è voluto farne saltar fuori 10 mila, 100 mila, 1 milione. Questo ha comportato inevitabilmente convertire l'artigianalità in industrializzazione dei settori, ossia un passaggio delle pratiche di allevamento da estensive a intensive, delle pratiche di produzione da manuali a elettromeccaniche. Quindi un passaggio della filiera da ambientazioni rurali a realtà industriali. Non possiamo sapere se la qualità organolettica, nutrizionale e igienico-sanitaria dei prodotti sia stata obiettivamente persa o guadagnata rispetto a 50 anni fa: non possiamo assaggiare i prodotti di allora con quelli di oggi. Possiamo solo sapere che sulla carta sono rispettati disciplinari di marchi oggi diventati un brand per l'export internazionale, per garantire determinate caratteristiche fondamentalmente fisico-chimiche-microbiologiche di una derrata alimentare. La qualità sostanzialmente è diventata un numero da monitorare e rispettare. Non è più un connubio indissolubile di territorio e prodotto, intendendo con territorio l'aria, l'acqua, la terra, e la gente che insieme hanno creato un prodotto. Questo fenomeno ci ha fatto capire lungo mezzo secolo che si può esportare il corpo di un alimento, ma non l'anima. Si può esportare un prodotto per fare profitto, ma non si può esportarne la sua cultura: quella la si può solo apprezzare dove è nato, ideato e creato, e dove per forza di cose occorre recarsi per consumarlo se si vuole apprezzare la sua essenza, che è tutt'uno con le potenzialità del suo ambiente, e i suoi sacri limiti.

Ecco in cosa consiste la tragicommedia agroalimentare dei dazi, che in sé rappresentano, ironia della sorte visti dall'altro fronte, il tentativo di difendere produzioni e consumi interni!
Non so se risulta chiaro allora il meccanismo schizofrenico del mercato globale nell'era digitale, nell'era dell'automazione dei lavori, dei redditi di cittadinanza universali: invece di creare politiche economiche che garantiscano globalmente ai cittadini il diritto di viaggiare in giro per il loro pianeta per andare a gustare i prodotti della terra, valori unici e universali, crea politiche economiche finalizzate esclusivamente al profitto finanziario lobbistico, ossia l'accumulo di denaro da parte di pochi, distruggendo l'ambiente, i rapporti umani, e il rapporto uomo-ambiente.

Vale la pena finire questa riflessione sui dazi USA-UE di questo fine 2019 anche chiedendoci come mai poi abbiano interessato prodotti come prosciutti e formaggi risparmiando prodotti come olio e pasta. Forse perché in queste ultime filiere agroalimentari ci sono altri interessi finanziari multinazionali coinvolti, come gli OGM e pesticidi, e penalizzare queste filiere con i dazi significherebbe far tornare indietro come boomerang gli svantaggi finanziari che si vogliono infliggere ai competitori?