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Pier Paolo Pasolini e le sue contraddizioni etico-linguistiche

29 aprile 2024


 Ecco un argomento che mi fa ritenere Pasolini un intellettuale contraddittorio, e pedina (a sua insaputa?) funzionale al sistema capitalistico che denunciava.

Un dialetto antropologicamente parlando è un linguaggio primordiale, che emerge da istinti conoscitivi e comunicativi, mentre una lingua nazionale altro non è che un dialetto standardizzato per convenzione (ovvero convenienza).

È inevitabile che una lingua strutturata perda il contatto immediato con la flessibilità e la plasticità della realtà che detiene il dialetto, tanto quanto è inevitabile però che il dialetto non abbia quel carattere potenzialmente universale ambito da una lingua, e che le consente la condivisione più ampia possibile proprio di quel valore universale della realtà. 

Ecco perché i linguaggi della scienza, della religione, delle arti, della filosofia, si elevano con i concetti astratti di una lingua potenzialmente universale, mentre sarebbero in difficoltà, se non inesistenti, se limitati alla natura empirica, contingente di un dialetto.

Di fatto però la contraddizione che emerge con Pasolini è che si valorizza il dialetto poiché si emargina con le classi sociali povere (ovvero private degli strumenti per ambire oltre con l'immaginazione e la sua lingua astratta) mentre si deprezza la lingua nazionale perché confinata con le élite sociali.

Non a caso piaceva a Pasolini frequentare di giorno i salotti culturali dal linguaggio aulico e raffinato, e di sera le periferie dal linguaggio degli istinti primordiali.

Ma un intellettuale non dovrebbe ambire ad abbattere confini ed emarginazioni a favore della condivisione di valori universali, invece di valorizzare le realtà separate dai confini per godere, approfittandone a tempo debito, di entrambe?

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